Questo è il racconto del ricordo dello sguardo d’un uomo, circa vent’anni or sono. Marco Aurelio è un nome di fantasia, giacchè il vero nome non l’ho conosciuto.
Una grande finestra, soffitti alti d’un secolo fa. Fuori, fra gli alberi del viale, una pioggia sottile e implacabile. La finestra ha le inferriate, è normale in un reparto di neurologia. In ospedale la notte comincia presto e dura un’eternità. Non è che possa molto lenire il male di F., forse queste notti con lui sono più un dovere, un atto di familiarità. Ogni tanto mi bisbiglia di quel pozzo là nel mezzo, indicando col dito. Allucinazioni, un cervello che si rompe non sta fermo, crea immagini e suoni per suo conto. Il pappagallo per la pipì, non è piacevole per me, ma almeno è qualcosa di concreto da fare. Dalla camera a fianco, dal buio, un altro vecchio dal cervello rotto sta sognando, è tutta la notte che sta chiamando «mamma». Nel letto accanto a F. c’è quel signore minuto, faccia da cagnetto bastonato. Si rigira, patisce, un corpo piccolo intriso di sofferenza. Passa Marco Aurelio, finalmente. Non che gli altri siano cattivi, ma lui è un infermiere diverso. L’ometto lo guarda implorante, Marco Aurelio gli si avvicina, gli tocca la spalla, il braccio. Un volto antico, bei lineamenti decisi, mi ricorda certe effigi romane. Occhi buoni, un sorriso lieve e rassicurante, mentre tocca quel malato e lo guarda negli occhi. Certo avrà l’abitudine al dolore, come tutti gli infermieri, eppure il suo sguardo è speciale, intensamente umano. Fuori, oltre le inferriate, fra gli alberi del viale, una pioggia sottile e implacabile.