Non pensare. Leggere le notizie brutte e raccapriccianti comporta la voglia di non pensarci. Il problema del nostro tempo è anche la potenza dell’informazione continua, l’orrore in tempo reale. Per secoli, almeno fino alla prima metà del Novecento, la narrazione dell’orrore era rallentata, settimane, a volte anni fra l’evento e la sua narrazione. Narrazione scritta, sì che gli analfabeti non sapevano nulla. Quanti erano al corrente del genocidio degli Armeni? La morte di milioni di nativi americani per vaiolo, causa l’arrivo degli europei, chi la conosceva davvero? Oggi, ogni orrore ti scorre davanti agli occhi quasi in diretta. Ad esempio i quaranta clandestini morti di caldo e sete nel container, oltre il confine fra Messico e Stati Uniti, solo a pensarci sto male. Lungo i millenni gli umani ne hanno viste e patite di tutti i colori, hanno visto e vissuto l’orrore infinite volte. Ma il conoscere era rallentato, come distillato dal filtro delle distanze, dai limiti delle tecniche di comunicazione. Il nostro corpomente non è attrezzato all’eccesso di conoscenza. Così come la gazzella scappa se il leone la insegue, ma non pensa al destino di tutti gli animali sbranati e uccisi quel giorno. La paura è sana, l’angoscia no, è il frutto dello scarto fra la nostra mente antica e il ritmo forsennato dell’informazione odierna. Poi, se vedo che alle notizie sull’orrore, negli interstizi di uno o due secondi, ci infilano la pubblicità, è un orrore nell’orrore.
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