Perché non possiamo non andare ai Boschetti [M. Cecconi]

Un viaggio nel cimitero della propria città. Un viaggio anche dentro se stessi, nei propri ricordi. Ma anche una riflessione sul rapporto complesso col passato. Certo un viaggio fra i morti, ma soprattutto un viaggio fra le vite, anche solo sfiorate ogni tanto. Ma le comparse contano nel film, e non poco. Poi l’analisi acuta, tipica del Marco Cecconi, delle immagini, di quel che le immagini sono all’aspetto ma anche nel riverbero interiore che possono evocare. Scrittura lieve, ritmo pacato, ma grande qualità. Per me, vera letteratura.

Il cimitero dei Boschetti è il cimitero principale di Spezia e si estende su una bassa collina fra il quartiere della Pianta e quello del Limone. E’ delimitato dal tracciato della via Aurelia sul lato della collina di San Venerio, mentre verso il mare si affaccia sul raccordo autostradale, sulle fabbriche e sul porto. E’ un cimitero simile ad altri cimiteri urbani, con i campi destinati alle inumazioni, i tumuli e le tombe di famiglia, queste ultime concentrate soprattutto vicino all’entrata principale e nella parte alta, intorno alla chiesa. Sulle tombe e le cappelle di famiglia troviamo i nomi delle buone famiglie di Spezia, alcune ancora conosciute, altre ormai sconosciute e spesso estinte. Certe lastre più vecchie hanno nomi quasi illeggibili, molte appaiono di fatto abbandonate, poche sono quelle veramente degradate. Le cappelle di famiglia formano un insieme eclettico in cui è leggibile un po’ di architettura del Novecento.

Nel percorrere gli spazi dei Boschetti mi trovo ad essere guidato da un duplice interesse: da una parte quello consueto per i cimiteri, che mi fa muovere qui come nel cimitero di una città qualsiasi, attento a ciò che si può cogliere in questi luoghi, sollecitato di volta in volta dall’incontro con un volto, dalla singolarità di un monumento funebre, dalla prosa più o meno originale di una lapide; dall’altra c’è il particolare interesse per il cimitero della mia città, la città in cui ho vissuto praticamente da sempre, e che è dunque abitato anche da persone che hanno fatto parte della mia vita. Si stabilisce così un incrocio emotivo fra il consueto ma pur sempre imprevedibile apparato cimiteriale (parole, immagini, monumenti) e alcune tracce della mia esistenza che qui ritrovo.
E’ normale, se ci aggiriamo per il cimitero della nostra città, imbattersi nelle tombe di persone che sapevamo scomparse, ma di cui ignoravamo il luogo della sepoltura. Per quanto molte di queste persone non siano costantemente nei nostri pensieri, rimaniamo sempre un po’ sorpresi quando scopriamo un volto e un nome noto, perché è come se all’improvviso, senza un nostro intervento, un tassello si mettesse al suo posto. Ma un tassello di cosa? Forse semplicemente della nostra esistenza, dell’insieme delle nostre relazioni con i vivi e con i morti. Tradizionalmente, l’assenza di un corpo, non sapere dove qualcuno è sepolto – se da qualche parte è sepolto – e a volte non avere la certezza che qualcuno sia veramente morto, sono inquietanti motivi che ostacolano una “normale” elaborazione del lutto. Ora, anche se con i defunti in cui c’imbattiamo più o meno casualmente non abbiamo avuto di solito un legame particolare, abbiamo comunque la sensazione che con l’individuazione della loro sepoltura qualcosa si sia veramente compiuto. In un secondo momento consideriamo il rapporto e l’eventuale sfasatura fra l’immagine che vediamo sulla tomba e quella che abbiamo nella mente, e leggendo le date sulla lapide riflettiamo sulla durata di una vita e il tempo che è passato, ma questo in fondo fa parte del consueto rituale del ricordo, mentre la cosa più importante è un’altra, è appunto l’impressione che un tassello si sia messo al suo posto. Così, nel nostro vagare per il cimitero, ci vengono in mente nomi e volti che potrebbero essere qui, ma non ne abbiamo la certezza, perché potrebbero essere altrove, anche in un piccolo cimitero dei dintorni o in un’altra città, chiusi in un’urna o dispersi nel vento. Vorremmo trovarli senza cercarli veramente, senza attivarci per conoscere la collocazione della loro tomba, come in un incontro per strada, come succede con persone con cui mai ci telefoniamo o prendiamo appuntamento.
Ma al cimitero possono capitare anche altri incontri, quelli con persone di cui ignoravamo la morte, volti che non vedevamo più da qualche tempo per strada, magari senza sapere bene chi fossero. Questi morti sono, per così dire, in agguato, e se da una parte ci sorprendono, dall’altra anch’essi innescano la sensazione di cui parlavo prima: un tassello trova il suo posto, qualcuno che vagava nella nostra vita, magari con un ruolo del tutto marginale e sepolto nel ricordo, si fissa al compimento della sua parabola. In fondo, me ne rendo conto, camminando in maniera irregolare ma con la pretesa di coprire un po’ tutti i campi del cimitero – si chiamano appunto così – cerco di evocare, insieme ai morti conosciuti, cioè quelli della cui morte ho certezza, anche quelle figure di cui ho un ricordo più o meno vago e che sono sparite dal mio orizzonte visivo, e soprattutto quelle di cui non ho proprio memoria ma che potrebbero accendere qualcosa offrendosi al mio sguardo con una semplice fotografia.

Le tombe che vanno dagli anni ’60 agli anni ’70 hanno quasi sempre foto in bianco e nero in cui riconosco, anche se non conosco nessuno, volti, tratti, atteggiamenti, abiti che mi hanno accompagnato durante l’infanzia e che allora associavo alle persone “vecchie”, che per un ragazzo è un insieme molto vasto e comprensivo, e queste persone “vecchie” hanno generalmente concluso la loro esistenza nell’arco di questi due decenni, Le tombe delle persone morte nel ’68 non hanno nulla del “Sessantotto”, ovviamente, ma molto degli anni precedenti, e questo vale anche per i giovani. Le fotografie sono ancora, quasi sempre, fotografie di studio in bianco e nero fatte da un fotografo, quindi con una certa professionalità e accuratezza. E’ difficile vedere fotografie “sbagliate”, tecnicamente poco riuscite, come capita spesso con le foto a colori che vediamo su tombe più recenti. Anche l’abbigliamento è adeguato al genere di foto e all’eta’ delle persone ritratte, perché difficilmente, ancor meno di adesso, veniva usata un’immagine giovanile per chi era morto in età matura.

Mi colpisce di meno la sequenza dei morti negli anni ’80, poiché le persone anziane mi sembra che non assomiglino più a quelle della mia infanzia e sono ancora rare le morti fra i miei coetanei o giù di lì: in quegli anni la morte che ci riguarda è ancora un’eccezione. Come una ragazza che cerco fingendo di non cercarla, più o meno là dove ricordo di averla trovata una volta, ma ora proprio non riesco ad orientarmi nel labirinto fitto di loculi collocati su diversi piani, come in una torre.

Ci sono nel cimitero monumenti e sacrari, come quelli dedicati ai caduti militari o alle vittime civili di guerra, ci sono i campi riservati ai bambini e quello per i defunti di religione ebraica. Un settore è dedicato ai partigiani, per la maggior parte caduti in battaglia o giustiziati, ed è costituito da un sacrario e da una serie di loculi di uguale dimensione. Ritrovo qui anche nomi di partigiani a cui sono state intitolate delle vie di Spezia. Alcune sepolture accolgono, oltre al partigiano, altre persone della sua famiglia, di solito i fratelli o i genitori, credo mai i figli, anche perché si tratta quasi sempre di uomini morti giovanissimi, come mostrano le date e ancor più certe foto di volti di ragazzini, uomini che non hanno fatto in tempo a diventare padri. Vedere queste foto di un bianco e nero sfumato, quasi evanescente, accanto a quelle dei familiari, di solito a colori, spesso istantanee scattate in anni più o meno recenti, anni che appaiono comunque lontanissimi da quelli della guerra, fa davvero uno strano effetto. Perché è come se attraverso queste immagini si raccontassero due storie diverse, e quella più recente, quella dei sopravvissuti, apparisse a volte in contrasto con quella dei caduti. Se accanto alla fotografia in bianco e nero del partigiano vedo quella a colori di un uomo alla guida di un motoscafo, berretto da marinaio e occhiali da sole, non posso non provare un certo disagio. Ma quali sono le ragioni del mio disagio? E che colpa ne ha, l’uomo sul motoscafo? Anzi, si può dire che è anche grazie al sacrificio dei partigiani che i loro fratelli, i sopravvissuti e quelli che sono venuti dopo hanno goduto della libertà e di migliori condizioni di vita, e le immagini sulle tombe ne sono in fondo una testimonianza. Questo in sé non è sbagliato, ma c’è qualcosa che non mi torna, continuo a vedere storie troppo diverse e a interrogarmi.

Leggendo le iscrizioni sulle lapidi, sembra che gli anni della guerra facciano da spartiacque fra una verbosità che sentiamo estranea e una relativa sobrietà delle sepolture successive. Così, quando troviamo effusioni di parole, citazioni, dichiarazioni di affetto in tombe relativamente recenti, rimaniamo colpiti come da cosa insolita.
Noto una tomba da una certa distanza, perché sulla lastra posta in verticale c’è una grande A. Mi viene subito da pensare alla A di Anarchia, e non mi sbaglio, perché sulla lapide c’é un cartiglio con il testo di Addio Lugano bella. La foto mostra un uomo piuttosto giovane – morto piuttosto giovane – in piedi accanto a un muretto dove è dipinto un graffito. Scruto la fisionomia dell’uomo ma né il volto né il nome mi dicono qualcosa, e ciò mi delude, perché penso dovrei conoscerlo.
Tanti volti di persone che scorgo nelle fotografie continuano a stare in un limbo, perché continuano ad essere conosciute e sconosciute al tempo stesso. La sensazione del “mi sembra di conoscerlo…” che proviamo quasi quotidianamente nella nostra città e a volte anche altrove è nel cimitero particolarmente frequente.
Sapevo che era morto il ragazzo in cui m’imbatto in una foto in bianco e nero di quando era veramente un ragazzo, lui che è morto a quasi cinquant’anni. Lo conoscevo appena, sapevo poche cose di lui, lui non credo sapesse molto di me, ma ci salutavamo sempre con cordialità. Sapevo della sua dipendenza, che poi l’ha portato in qualche modo alla morte. Nella foto appare di profilo, lo sguardo malinconico verso un altrove in cui sembra riassumersi tutto il tempo che è venuto dopo, fino alla sua morte e anche dopo la sua morte, come se quello sguardo fosse carico di un futuro che non è finito.
Scopro la tomba di un altro ragazzo della cui morte non sapevo e che non vedevo da tantissimo tempo. E’ morto a più di cinquant’anni e non siamo nemmeno cresciuti insieme, per cui non ci sarebbe nessuna ragione per chiamarlo ragazzo, ma il fatto che la sua tomba sia animata da pupazzi e gagliardetti un po’ mi autorizza a chiamarlo così. Ma ancor più il fatto di averlo conosciuto in anni lontani durante un soggiorno estivo per persone portatrici di handicap (allora si diceva così, era il massimo della correttezza) e lui aveva handicap sia fisici che mentali. C’erano gli “operatori” da una parte, e i “ragazzi” dall’altra, anche se fra questi ultimi alcuni avevano già una certa età. Ragazzo sempre, dunque, visto così anche nella tomba da chi gli stava vicino.

Ho l’impressione che al cimitero succeda un po’ come quando si spera d’incontrare una persona e si percorrono le strade dove pensiamo sia più facile imbattersi in lei. In realtà è più facile che la incontriamo in un luogo completamente diverso, in una situazione del tutto imprevista. Così al cimitero, in base a una cronologia, individuiamo uno spazio entro cui, verosimilmente, dovrebbe collocarsi una sepoltura, ma questa si trova spesso da tutt’altra parte, e la scopriamo in maniera del tutto fortuita, se questo accade. Ma succedono anche altre cose. Cerco una tomba e non la trovo dove penso che sia, dove l’ho vista altre volte: o sono io che mi confondo, oppure la tomba semplicemente non esiste più, perché mi rendo conto che sono passati più di di dieci anni e dopo dieci anni le salme sepolte in terra vengono riesumate e collocate eventualmente nei tumuli. Una persona che credevo avesse trovato sepoltura continua a vagare finché non sarò in grado di associarla a una nuova tomba, sempre che ci riesca e che questa tomba esista.
Al di là di superficiali analogie, non c’è corrispondenza fra la città dei vivi e la città dei morti: quest’ultima muta più velocemente della prima, almeno in quella che è la sua parte più moderna. Nei cimiteri le parti vecchie, monumentali, restano immutate, e così le sepolture in concessione perpetua, mentre quelle più nuove – anche qui la guerra sembra fare da spartiacque – mutano velocemente, un po’ come se ogni dieci, venti, o trent’anni gli edifici di una città fossero abbattuti e se ne costruissero altri: il modello del cimitero è forse il sogno di ogni immobiliarista. Così il cimitero è un cantiere sempre aperto, dove un cartello con scritto “campo in esumazione” segnala che quelle sepolture stanno scomparendo, mentre in un campo contiguo la presenza di cumuli di terra fresca e di croci di legno indica nuove sepolture in attesa dei decori funebri, dei marmi e delle lapidi.
In una zona alta, un po’ defilata del cimitero, che è anche il punto da dove si ha la vista più ampia dei dintorni, si trovano delle tombe, alcune segnalate da semplici croci di legno e una targhetta con scritto: “resti mortali di…”, altre con lapidi che sembrano essere collocate in maniera precaria o affondare nel terreno. Alcune hanno dei fiori, la maggior parte no, e prevale il verde cresciuto sulle sepolture. Credo si tratti di salme “in parcheggio”, che non hanno ancora compiuto il processo di mineralizzazione e non sono pronte per essere esumate anche se sono passati più di dieci anni. Non capisco se sono sepolte qui da sempre o sono state traslate da altri campi: i regolamenti di polizia mortuaria restano per me in larga parte misteriosi. Questa situazione di precarietà, di transito, dà un tocco particolarmente patetico a questa zona, che ricorda un po’ certi cimiteri di campagna. Il verde dell’esterno oltrepassa i confini del cimitero – ci sono anche dei cespugli di more a portata di mano – e avverto dei profumi che non sono quelli dei fiori sulle tombe, che sanno sempre un po’ di putrefazione.

E’ faticoso e frustrante trovare un ordine cronologico nel cimitero: si segue una serie di tombe di uno stesso anno, ma poi la sequenza s’interrompe, per cui si torna indietro nel tempo o si va molto più avanti, e questo con molte eccezioni, con inserimenti anacronistici. Questo accade soprattutto nei loculi, che possono essere aperti per ospitare nuovi defunti, con nuove lapidi o con aggiunte posticce. A un certo punto l’affastellarsi di nomi, foto, date provoca saturazione, non cogliamo più la singolarità, la differenza. E ci rendiamo conto che quello che ci turba veramente non è la vicinanza con la morte ma la difficoltà che abbiamo a dare un senso alla nostra presenza.
A volte ho il timore che questo mio aggirarmi per il cimitero al di là del consueto, personale “giro dei morti” possa apparire sospetto, come se interessarsi di persone che non abbiamo mai conosciuto fosse in fondo una mancanza di riguardo, il segno di una curiosità fuori posto. Anche se nessuno, di fatto, può venire a rimproverarmi per questo, il mio vagabondaggio in fondo gratuito, non legato al rituale di un ricordo strettamente personale, crea in me qualche imbarazzo, un vago senso di colpa. Se poi mi ritrovo in una zona del cimitero un po’ spettrale, dove non s’incontra nessuno, come quella che confina con via Sarzana, che per un lungo tratto presenta quasi solo loculi molto vecchi, senza i segni di un culto, di una cura che li tenga in vita, mi chiedo cosa risponderei a qualcuno che mi chiedesse ragione della mia presenza lì, non sentendomi proprio di rispondere che è una cosa che non lo riguarda.
Allora, se c’è un’anima in pena in questo cimitero, sono proprio io che cerco a modo mio di evocare i morti, quelli che presumo mi appartengano e anche quelli che non mi appartengono, nell’illusione di poter mettere a posto tutti i tasselli. E in fondo, nel cimitero dei Boschetti come in un altro cimitero, sono in preda a un automatismo, sono preso da un gioco che mi trovo a fare quasi senza rendermene conto mentre cammino fra le tombe: è il gioco “data di nascita/data di morte”, pratica ossessiva dove calcolo velocemente l’età che aveva il defunto quando è diventato tale. Non è che lo faccio con tutti, lo faccio soprattutto con quelli che hanno una data di nascita vicina alla mia, oppure con quelli decisamente giovani, lo faccio insomma con quelli che per una ragione o per l’altra considero ragazzi.