Ėjzenštejn, oppure Totò e Peppino.

L’arte non si rifugia certo in modo esclusivo nelle gallerie preposte. Non è più, da almeno cent’anni, un evento artigianale ed elitario, anche se permangono, senza segnali d’estinzione, le forme tradizionali nelle quali si concretizza e si offre.

È ben noto come un pensatore raffinato ed acuto come Benjamin abbia affrontato il problema, il tema della riproducibilità tecnica delle immagini e dei suoni, all’avvento della fotografia e del cinema. L’arte a portata di mano, l’arte per tutti, l’arte che perde quella sacralità intrinseca all’oggetto unico, raro, esclusivo. Questa abolizione delle distanze è considerata, valutata, anche da Heidegger, ma l’atteggiamento di quest’ultimo è diverso da quello di Benjamin. In definitiva per Heidegger la mancanza di mediazione, di riflessione intima, rende questo soffermarsi frettoloso all’abbondante apparenza un fenomeno infruttuoso, una spiacevole conseguenza delle nuove tecnologie. Invece Benjamin cerca di andare oltre, di intravvedere nuovi scenari e nuove opportunità.

Queste considerazioni le accenno da un ricco articolo di Vita Pensata, a firma di Pasquale Indulgenza. Purtroppo però siete capitati qui, e quindi dovrete sopportare la mia irrilevante riflessione sul tema.
Certamente il cinema è una delle umane attività che con più evidenza appartiene tanto al territorio dell’industria quanto a quello della cultura e dell’arte, tanto è vero che da tempo s’è coniato il termine di industria culturale.

Secondo me il prodotto cinematografico o anche televisivo di qualità apprezzabile non è mai del tutto antagonista della produzione culturale e ad artistica cosiddetta colta. Nello strato creativo sottostante, nei riferimenti di base che nutrono la personalità del cineasta, del regista, dello sceneggiatore (ma anche d’altre figure importanti come i direttori della fotografia), possono agire dei riferimenti culturali di buon livello, delle riflessioni non sciatte, insomma quel che si dice, dei riferimenti colti o quantomeno delle capacità di leggere l’umana vicenda che non siano superficiali.
Quindi, la produzione di qualità, sia essa d’élite o di massa, necessita di un pensiero degno di questo nome.

Inoltre in questi anni si sta verificando un fenomeno interessante: la cultura piace al pubblico, la cultura attira l’attenzione anche di chi non è un accademico. I vari festival di filosofia e letteratura hanno un successo in precedenza imprevisto, talvolta impressionante. Alcuni filosofi non di poco conto sono quasi delle star.
Allora io penso: forse è possibile coniugare qualità e mercato, ma se, e solo se, un pensare autentico è il punto di partenza. Certo, se invece si studia a tavolino quel che potrebbe soddisfare il mercato e si confezionano a posteriori i prodotti culturali, vengono fuori delle clamorose scemenze, ma questo è appunto perchè non si parte dal verso giusto.

Ciò che  prende impulso dal pensiero critico, intelligente, colto ma non stantìo, funziona, ha un senso, e risolve anche l’artificiale dualismo fra cultura diffusa e cultura d’élite.

Dopo questa colta riflessione, vado a riguardarmi sul tube un bel fimetto di quelli con Totò e Peppino. Che ci volete fare, noi filosofi dilettanti troviamo la scusa valida per ogni cosa.

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