solo chitarra, senza orpelli

che voglia di ritornare giovane, non nel corpo, della pellaccia non mi interessa, ma nell’anima; blues rudimentale, in cerca della purezza perduta

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se il cuore avesse coscienza si fermerebbe

“se il cuore avesse coscienza si fermerebbe”, potenza del pensiero di Pessoa, sul margine estremo della consapevolezza, grazie a José Maria Corsanico, eccezionale qualità nel testo e della lettura, con voce nitida, di disperata compostezza

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lo spettacolo della violenza, e il nostro pudore.

Visto, a casa di un amico, il famoso colossal di Ridley Scott. La figura del gladiatore da sempre affascina, da sempre plasticamente evoca la millenaria potenza di Roma. Da sempre, quando ammiro una meravigliosa vestigia romana, mi sovviene un pensiero. Di certo un pensiero ingenuo. Possibile che una civiltà così potente, capace di produrre autentiche meraviglie, fosse così assetata di sangue? Perché i romani amavano così tanto lo spettacolo della morte, del sangue che intride la sabbia? Una prima risposta è che adoravano la forza del vincitore, la potenza del combattente, il sangue e il dolore sono solo componente necessaria, non il focus dello spettacolo. Altra risposta è riflettere come Roma, e l’orgoglio che i cittadini della città eterna, era chiaramente legato alla potenza militare, alla consapevolezza di come la grandezza derivasse dalla forza, una forza organizzata, addestrata, ma messa in prova dall’inevitabile violenza della guerra.

E noi, placidi spettatori da divano? Certo siamo consapevoli che è un film. Certo non andremmo mai in uno stadio a vedere la morte cruenta in diretta. Ma quello spettacolo un po’ ci affascina. Forse dentro di noi la consapevolezza celata di come la violenza sia dietro ogni potere. Un poco di senso di colpa è in agguato, sempre. Quando un ceto sociale, una fortunata minoranza se la passa benino, c’è nelle pieghe della verità la sofferenza di qualcun altro. I romani erano sinceri. Il rapporto degli antichi con la violenza non era filtrato dal cristiano pudore.

Un film, è solo un film. Ma se piace un motivo c’è.

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Wanderlust

Due righette sul libro di Paolo Pasquali “Wanderlust”, frammenti d’altrove, il sottotitolo. Edizione “Il mio libro”. Prefazione di Amerigo Lualdi, penna di qualità, sincerità e stile.

“Verde scuro e liane protese a toccare le nuvole basse cariche di pioggia, pioggia non temuta dalle rematrici, farfalle colorate, le donne in piedi a spingere e pagaiare barche filiformi che a prima vista non davano l’idea di scafi stabili. La loro leggiadria, quella sì che era sicuramente duratura, tramandata da madri e nonne, donne che per generazioni hanno venduto sull’acqua del Mekong quello che coltivavano nelle piantagioni tra le anse del grande fiume che ramifica la foce in intricate vie d’acqua…” (pag. 76)

L’amore per la donna, la sua profondità, in connubio con l’acqua, le acque. Paolo ama la femminilità, potente e lievemente misteriosa. Vite dure, ma osservate con elegante rispetto.

Qui in Laos, la descrizione del luogo, il riferimento a al lavoro incessante delle donne, si intreccia ai ricordi personali più intensi, il ricordo del padre, dall’autore con virile dolcezza accudito alla fine dei suoi giorni.

“Brezza, caldo, rane nel buio. Passeggio tra le capanne e sulla riva le donne, mai a riposo, lavano i panni tenendo sotto controllo i bimbi più piccoli che canterellano sulle verande. Un uomo anziano fuma guardando un punto imprecisato nel ‘cielo che imbruna’ – direbbe Leopardi – e quell’uomo mi ricorda mio padre mancato da poco. Bruno era il nome di mio padre” (pag 67)

Frammenti di ricordi, nel mentre del viaggio. Fra uomini che hanno lavorato una vita, ci si guarda le mani, e più che mai un figlio osserva quelle del padre.

“Abbandonare la corsa, prendersi un attimo di riposo, tirare il fiato. Erano scomparse le rughe dalla sua fronte e le sue mani diventavano ogni giorno sempre più affusolate e morbide, come se nella vita avesse lavorato come impiegato. Nella realtà quelle mani avevano conosciuto martello e chiodi, avevano confidenza con sassi e cemento, calli e setole. Quelle mani identiche a quelle di suo padre […], le mani che ora assomigliano alle mie” (pag. 69)

La terra, la sabbia, il cammino sulle rocce, il cielo vasto dai colori cangianti. Paolo ha percorso, col sudore e la pazienza, un cammino che è poesia incarnata, poesia vera che è nelle gambe, nel respiro, più che nel pensiero comodo alla scrivania.

Spesso è l’acqua, l’ambiente fluviale, quel che mi ha rapito nel leggere. Prendiamo ad esempio gli appunti di viaggo su Ganvié, villaggio palafitticolo nel sud del Benin. Anche qui la donna, madre della vita, impersonificata di Madame “Emme”.

“… è una donnona enorme seduta su uno scranno di legno scolpito che pare modellato in modo da contenerla tutta. […] vestita con un abito giallo e rosso e un fazzoletto annodato in testa. L’oro della collana e degli orecchini sono fantasie forforescenti nella notte color pece della pelle. […] Su quest’isola artificiale è stata corteggiata, amata, qui ha partorito queste piccole schegge d’ebano vestiti come principi ereditari. […] Sacerdotessa acquatica, sirena oversize, forse madre capostipite di tutti questi bimbi che passano sulle piroghe. Lei è l’ape regina. Le unghie dei suoi piedi sono artigli smaltati di rosso. (pag. 57)

Il racconto di Paolo è intessuto nel dialogo interiore fra ciò che vede e quel riverbera in lui, un emozionante filo diretto fra ciò che gli appare e il suo demone interiore di viaggiatore che non viaggia per la destinazione, ma per la magia dell’andare. Un incantevole esempio in questa immagine femminile sull’acqua:

“Una ragazzina vestita di bianco rema e canta una melodia che mi sconquassa l’anima” (pag. 55)

Paolo, ovviamente, l’ho conosciuto al bar. Solo al bar conosci gente così.

Ma nel libro c’è molto altro, non bastano le mie righette, leggetelo.

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due paroline per l’anno nuovo

quasi banale riflessione sulla morsa del tempo

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così mi distraggio un po’…

strimpellatina alla buona, un poco blues su un brano famosissimo specie a capodanno

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Lampi di luce (post notturno)

Periferia, Addobbi intermittenti dai balconi. Lampi di luce nelle stanze di questo appartamento. Disordine sparso dei cimeli d’una vita banale che beffardi emergono dal buio. Notte di Natale, quanto son crudeli più del solito le solitudini, quanto i nodi delle vite vengono al pettine. Senza alcun merito, a me è andata abbastanza di culo tutta la partita. Domattina inizia un giorno durissimo per chi è solo, un giorno ipocrita per chi la solitudine degli altri la vede e fa finta di niente. Quattro soldi e la paura di perderli, caro Gesù hai voglia di rinascere, ti venderemo, come sempre, per trenta denari. Buon Natale, certo, ma che sia almeno sincero.

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