Iliade, tra mito e realtà

In questa pagina voglio raccogliere i testi di un bel lavoro di Alfredo Liberi, dedicato appunto alla leggendaria città descritta nei poemi omerici. (Tutti i diritti sono riservati all’autore)

1. La guerra di Troia: Mito o realtà?

Ho sempre coltivato una passionaccia per la storia antica e, di conseguenza, per l’archeologia. Ovviamente da povero dilettante, in quanto nella vita ho fatto tutt’altro mestiere. Puro interesse speculativo, tanto per passare il tempo e prendere più facilmente sonno la sera.

Questa estate sono rimasto molto colpito da un articolo uscito sul Corriere della Sera, dal titolo: “A Itaca scoperta la reggia di Ulisse”. Sono rimasto letteralmente allibito. Per me era come se avessero scritto: “Scoperta la casetta di Biancaneve e i Sette Nani”. Poi, leggendo l’articolo, chiaramente le cose venivano ridimensionate e messe più o meno nella loro vera prospettiva storica. Quelli che in realtà erano stati scoperti erano i resti di un palazzo di epoca micenea e l’estensore dell’articolo, con un ardito volo pindarico, non aveva minimamente esitato ad attribuirli ad Ulisse, forse per attirare maggiormente l’attenzione del lettore. Ho citato questo fatto per sottolineare una fastidiosa tendenza, propria di molta stampa a carattere divulgativo, di banalizzare eccessivamente gli argomenti storici concernenti il passato remoto, imprimendo nel lettore non informato la convinzione che quelle che in realtà sono solamente ipotesi (e spesso neppure molto attendibili) siano in realtà certezze storiche inoppugnabili.

Per comprendere le difficoltà che incontra chi voglia ricostruire un brandello di storia molto antica (gli storici della modernità incontrano ostacoli di tipo molto differente), si potrebbero portare due esempi. Immaginate di voler ricomporre un puzzle (di cui non conoscete il disegno originale) e di accorgervi di possedere solamente il 40% delle tessere che lo compongono (e in questo tipo di lavoro questa sarebbe già una situazione molto favorevole). Riuscire a ricomporre perfettamente l’immagine in tutti i suoi particolari sarà chiaramente un’impresa impossibile perchè mancano troppe tessere. Tuttavia, lavorando d’ingegno, di intuizione e di immaginazione, riuscirete probabilmente a dar vita ad un quadro che, secondo voi, approssima in maniera ottimale quello originale (che è e rimane sconosciuto). La vostra non sarà la soluzione dell’enigma, bensì la sua migliore approssimazione possibile, ossia quella che, con il numero di tessere del mosaico a disposizione, secondo voi, si avvicina il più possibile all’originale (che, ripeto, è e rimane sconosciuto). La vostra ipotesi sarà valida solo temporaneamente. Se infatti tra un mese o tra un anno qualcuno vi regalerà un altro 5 o 6% delle tessere mancanti, la vostra ipotesi dovrà essere rivista e magari ritoccata anche sostanzialmente per tener conto dei nuovi dati disponibili.

Secondo esempio. Chi si addentra nei meandri della storia umana dei secoli passati è come un viandante che, in una notte senza luna, si incammina su una strada inizialmente ben illuminata da potenti lampioni. Inizialmente la luce è forte, la strada è ben visibile ed il cammino è sicuro. Ma via via che si inoltra, i lampioni (che altro non sono che le fonti scritte), si diradano sempre più e la loro luce è sempre più fioca (l’attendibilità delle fonti diminuisce), finchè si arriva ad un certo punto in cui l’ultimo lampione è ormai distante alle nostre spalle e al nostro povero viandante sarà sempre più difficile trovare il cammino. Alle spalle c’è la storia più recente, relativamente ben illuminata dalle fonti (i lampioni), davanti a lui il buio della preistoria.

Ecco, nell’esplorare l’argomento che mi sono proposto ci troviamo esattamente nella situazione di questo viandante. La guerra di Troia (se mai è esistita una città chiamata Troia e se mai è stata combattuta una “guerra di Troia”) è collocabile al limite della preistoria (per l’area dell’Egeo) e le tessere disponibili per ricomporre il famoso mosaico (tornando all’esempio precedente) non sono il 40%, bensì non più del 10%. E forse esagero in senso ottimistico.

Scrivere la storia di un sito, di un popolo, di una città o di una determinata area geografica, in definitiva, significa stabilire una cronologia di date, nomi ed eventi ad esso collegata. Significa anche tracciarne la cultura, la struttura sociale ed economica, ma ricordiamoci che senza date, senza nomi e senza eventi politici e militari non è possibile parlare di “storia” di quel territorio o di quel popolo. Ne deriva che la storia ha inizio solo dopo l’avvento della scrittura presso i popoli o le aree geografiche d’interesse. Per l’Egitto e la Mesopotamia (o la Siria) si può cominciare già a parlare di storia a partire dalla metà del III millennio a.C., ma in aree geografiche come la Grecia o la sponda egea dell’Asia Minore, l’alfabetizzazione arrivò molto più tardi.

Certo, anche in assenza di fonti scritte, tramite l’archeologia è possibile conoscere tantissime cose del territorio che ci interessa, come l’ambiente, la sua flora e fauna ed il tipo di alimentazione (tramite l’esame degli avanzi del cibo e dei pollini fossilizzati) ed anche la struttura sociale di quella società, senza però poter parlare di storia vera e propria. Preziosi indizi, ad esempio, possono arrivarci dall’analisi dei “rifiuti” urbani. I popoli antichi, per nostra fortuna, non riciclavano la spazzatura. Si liberavano dei rifiuti semplicemente gettandoli fuori dell’abitazione, oppure collocandoli poco all’esterno dell’abitato. Se tra essi, ad esempio, troveremo cocci di vasellame grossolani e lavorati a mano, ciò sarà indice di una società poco differenziata, in cui ogni nucleo familiare era autarchico ed oltre al cibo, provvedeva da sè anche alla fabbricazione delle stoviglie. Viceversa una più raffinata lavorazione al tornio della ceramica rileverà la presenza di artigiani che campavano solo su quel tipo di lavoro nel quale erano specializzati, ed anche il fatto che nell’abitato vi era un sufficiente numero di famiglie in grado di accumulare risorse delle quali si servivano per acquisire beni e servizi da fornitori esterni, ossia un tipo di società molto più evoluta. Inutile precisare poi l’importanza delle sepolture: gran parte del lavoro di un archeologo consiste nell’analisi dei contenuti delle tombe delle necropoli, resti umani e oggetti che gli antichi erano soliti inserire nella sepoltura. Se i contenuti delle sepolture sono sostanzialmente poco diversificati, ciò sarà indice di una società poco differenziata. Viceversa tombe con ricchi corredi funerari, accanto a molto più numerose sepolture più umili e modeste, sarà sicura indicazione di una classe dirigente prevalente sul resto della popolazione. E così via.

Ritornando al nostro argomento (Troia e dintorni), mi sono a lungo scervellato su come affrontarlo e in che ordine esporne gli argomenti. Mi sono però accorto che, trattandosi di un tema molto complesso (a dispetto delle apparenze), ciò non era possibile perchè avrei dovuto continuamente far riferimento a temi che mi sarei riproposto di affrontare successivamente. E allora ho deciso di non prefissarmi una “scaletta”, ma di procedere alla “sanfasò” (come direbbe Camilleri), affrontando gli argomenti in ordine sparso, alla “come viene viene”. Vedremo cosa ne verrà fuori……

(1. continua)

2. Un certo Herr Schliemann

Fino alla metà dell’Ottocento gli studiosi che si interessavano di antichità greche, non nutrivano dubbi. I popoli di lingua greca (suddivisi in tribù parlanti i tre dialetti fondamentali dorico, ionico ed eolico) erano immigrati nella penisola intorno al 1200 a.C. (d’ora in poi per brevità ometterò la dizione “a.C.” e tutte le date si intenderanno anteriori all’era cristiana) in uno stato di semibarbarie e successivamente, al contatto con popoli medio orientali più evoluti, avevano elaborato la loro splendida civiltà che raggiunse il culmine tra il 500 ed il 300. E le storie raccontate nei poemi omerici? Favole dovute alla fervida immaginazione di cantastorie che vagavano di corte in corte recitando e cantando il loro repertorio tradizionale di saghe epiche. Qualcosa di simile alla storia di re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda, insignificante quanto a valore storico. Qualcuno forse potrebbe osservare che, a ben vedere, in un mito c’è sempre un fondo di verità storica. Bè, non sempre è così. Ci sono molti miti che, per quanto ne sappiamo, sono pure leggende come, ad esempio, quello delle origini di Roma: i due gemelli abbandonati alla corrente del Tevere dentro una cesta, la lupa che li allatta etc etc…

Poi, improvvisamente, l’ostinazione di un “dilettante” tedesco, un certo Heinrich Schliemann, mise in crisi tutte queste certezze e i parrucconi “accademici” dovettero fare i conti con una realtà completamente diversa da come l’avevano immaginata. Schliemann era un mercante prussiano che, importando pellicce pregiate dalla Russia e dalla Scandinavia, aveva messo insieme una cospicua ricchezza. Fin dalla fanciullezza era appassionato dei poemi omerici, pur non conoscendo il greco antico, ed era fermamente convinto che quanto raccontato da Omero nell’Iliade e nell’Odissea fosse tutta sacrosanta verità. Raggranellata una fortuna degna di Paperon de’ Paperoni, decise di ritirarsi dagli affari e di dedicare il resto della sua vita a dimostrare la sua teoria. Iniziò dal Peloponeso dove a Micene e poi a Pilo (che secondo Omero erano sedi dei regni rispettivamente di Agamennone e di Nestore) in brevissimo tempo fece emergere dal terreno i resti di mura ciclopiche e di palazzi, nonchè sepolture regali con ricchissimi corredi funerari, in uno stile completamente diverso da quello universalmente noto della Grecia classica, chiaramente appartenenti ad una civiltà antichissima, anteriore a quella greca, della quale si era persa totalmente memoria. Questa civiltà, che Schliemann aveva iniziato a portare alla luce, fu detta in seguito “micenea”, nel presupposto che Micene ne fosse il centro principale.

Nel 1864, mentre gli addetti ai lavori erano ancora in subbuglio per queste scoperte che rivoluzionavano il modo di immaginare il passato della penisola greca, il “dilettante” Schliemann fece esplodere un’altra bomba, ancora più pesante. Recatosi in Turchia e procuratisi (a peso d’oro) i necessari permessi presso gli uffici dell’Impero Ottomano, si recò nello spigolo nord-occidentale della penisola anatolica, a due passi dallo stretto dei Dardanelli, là dove la tradizione poneva la città di Troia, ben deciso a riportarla alla luce. Iniziò a scavare nei pressi del villaggio turco di Bunarbashi, dove già due anni prima un archeologo americano aveva tentato senza esito la stessa ricerca. Ma dopo pochi giorni il suo “fiuto” gli disse che stava scavando nel posto sbagliato. Nulla nel paesaggio circostante coincideva con il racconto omerico, e così cessò i lavori e si mise ad esplorare i dintorni. Fu immediatamente attratto dalla collinetta di Hissarlik, poco lontana da Bunarbashi, ed il luogo gli sembrò ideale. L’elemento decisivo era rappresentato dalla presenza di due fiumiciattoli, alla base dell’altura, che nella sua fantasia battezzò immediatamente Scamandro e Simoenta, come nell’Iliade. Ai piedi della collina si estendeva una pianura dove già Schliemann immaginava gli eserciti troiani e greci intenti a suonarsele di santa ragione, e in lontananza si intravvedeva il mare, con una lunga spiaggia, che Schliemann fantasticava piena di navi achee tirate in secca. Di fronte c’era l’isolotto di Tenedo e più lontana l’isola di Lemno. Lo scenario si adattava perfettamente a quello che Omero aveva descritto nell’Iliade. Iniziò a scavare e fece subito centro.

Le scoperte di Schliemann, nonostante fossero inizialmente contrastate dallo scetticismo “accademico”, comportarono una piccola rivoluzione anche nel modo di valutare i poemi omerici. Evidentemente non tutto quello che Omero aveva messo per iscritto era frutto di fantasia e immaginazione. D’altra parte leggendo i suoi poemi con occhio critico, anche prima delle imprese di Schliemann sarebbe stato possibile accorgersi che qualcosa non filava, ossia che un qualche inconscio sottofondo storico essi dovevano pur avere.

Innanzitutto era molto strano che nell’Iliade non si facesse mai menzione di importanti città greche quali Atene, Corinto, Tessalonica, Efeso etc etc. Le città che formavano la “coalizione” antitroiana erano tutte (a parte Sparta) o sconosciute oppure ridotte, in tempi storici, al ruolo di semplici villaggi di poche anime. Micene, la città che guidava la coalizione al comando del suo re Agamennone, in età classica aveva solo 300 abitanti e venne completamente abbandonata già prima dell’era cristiana. Eppure Omero la descriveva come popolosa, ricca e potente.

Ma c’è di più. Menelao era biondo, così come bionda era sua moglie, la fedifraga Elena. Biondo era Achille ed il suo amichetto Patroclo. Ora, è del tutto assodato che i greci antichi, di età classica, erano fisicamente del tutto identici a quelli moderni. Erano i classici tipi mediterranei: statura media, capelli neri e ricciuti, colorito della pelle piuttosto scuro. Questo è ben noto sia dagli antichi scrittori, sia sopratutto dalle raffigurazioni che compaiono su vasi e piatti decorati. Come potevano quindi gli autori dei poemi omerici “fantasticare” sui capelli biondi di questi importanti personaggi se non perchè era giunta sino a loro una ben precisa tradizione in merito?

Altra inspiegabile stranezza omerica: i greci antichi inumavano i loro morti, mentre nell’Iliade gli Achei di Agamennone sono accaniti crematori di cadaveri. Ora, se c’è una cosa che nelle usanze di un popolo è difficilissima da sradicare sono proprio le tradizioni ed i riti funerari che spesso sopravvivono persino a radicali cambiamenti di religione da parte della popolazione. Basti pensare che ancora adesso il rituale funerario in Italia si discosta pochissimo da quello praticato nella pagana Roma d’età imperiale. L’unica cosa non più in uso è il “banchetto funebre” che si celebrava davanti alla tomba subito dopo l’inumazione della salma, che però è spesso sostituito da un più pratico rinfresco offerto in casa. Persino le “prefiche” che piangono (a pagamento) la salma prima delle esequie, sopravvivono in qualche zona del meridione.

Anticamente, cremare il defunto sigificava porre in cielo la sede della divinità. L’anima, trasportata in alto dal fumo della pira, era così facilitata nel ricongiungersi ad essa. Viceversa, seppellire il defunto significava credere in un mondo sotterraneo popolato dalle anime dei morti, l’Ade appunto. Queste credenze e tradizioni sono molto difficili da sradicare. Era quindi evidente che Omero, nell’Iliade, raccoglieva memorie antichissime di un popolo che aveva usanze del tutto diverse da quelle della Grecia dei suoi tempi.

Ancora. Nell’Iliade, mentre l’umile fanteria va a piedi in battaglia, i capi, ossia i vari Agamennone, Menelao, Aiace, Ulisse, Nestore etc etc, vi si recano sul loro carro da guerra, tirato da una coppia di cavalli e guidato da un auriga. Ma presso i Greci, in età storica, il carro da guerra (tipico di Assiri ed Egizi) non era in uso. I Greci combattevano o a piedi o a cavallo, mai sul carro. Ed infatti i cantastorie che composero l’Iliade (e poi lo stesso Omero che la mise per iscritto) non sanno minimamente descrivere il combattimento dal carro. Arrivati sul luogo della battaglia gli eroi omerici “parcheggiano” il loro carro e scendono a combattere a piedi. Che stranezza! Nell’Iliade il carro da combattimento è considerato alla stregua di un taxi, una “yellow cab”, da usare per percorrere più comodamente e velocemente i chilometri che separano la spiaggia dalla spianata davanti a Troia dove si combatte. Chi compose i poemi omerici, per tradizione “sapeva” che Achille, Menelao, Diomede etc etc usavano il carro da guerra, ma non sapeva come lo usassero in battaglia, e quindi li faceva scendere e combattere a piedi, unico modo di combattere che il poeta conosceva bene e che quindi era in grado di descrivere.

Un’ulteriore prova che i poemi omerici traggono le loro radici da una realtà lontanissima è costituita dal fatto che in essi non esiste un etimo per indicare “collettivamente” i vari popoli che partecipano alla spedizione contro Troia, e neppure l’insieme dei loro paesi d’origine. I greci oggi sono “Ellenes” e la Grecia è “Ellas”, e così era anche ai tempi di Erodoto, Esiodo e Platone, ma in Omero no. Nell’Iliade gli Ellenes sono un piccolo popolo, suddito di Achille assieme agli sconosciuti Mirmidoni, ed il toponimo Ellas indica il loro territorio, situato presumibilmente nella pianura della Tessaglia. Gli Ellenes in Omero non sono ancora riconosciuti come etnico rappresentativo di tutti i greci. Quando Omero vuole indicare tutti i partecipanti alla spedizione impiega frequentemente il termine Achaioi, ossia “Achei” (605 volte nell’Iliade e 118 volte nell’Odissea), oppure, più raramente Argeioi, ossia “Argivi” (197 volte nell’Iliade e 30 nell’Odissea), o anche Danaoi cioè “Danai” (146 volte nell’Iliade e appena 13 nell’Odissea). E’ evidente quindi che all’epoca non esisteva un termine atto ad indicare nel loro insieme le popolazioni che abitavano la penisola greca. Successivamente (ma secoli dopo) per qualche motivo che ci è ignoto, prevalse il termine “Elleni”, che però inizialmente indicava solo uno dei tanti popoli presenti in Grecia.

Tutte queste stranezze ed anomalie non potevano significare che una cosa sola: nei poemi omerici erano presenti reminiscenze di un tempo molto anteriore a quello in cui i poeti composero la loro opera, anomalie che rimandano inevitabilmente addiritura ad un’altra civiltà, diversa da quella greca classica a noi nota, e ad essa precedente. La civiltà micenea, appunto.

(2. continua)

3. Lineare B

Negli ultimi anni della sua vita Heinrich Schliemann aveva avuto una grande intuizione. Cominciava infatti a supporre che la civiltà micenea da lui portata alla luce, avesse la sua fonte nell’isola di Creta e che lì si trovasse la sede di una civiltà ancora più antica ed evoluta di cui credeva di aver trovato traccia nei suoi scavi nel Peloponeso. Si recò a Creta ed ispezionò il sito di Cnosso, a pochi chilometri di distanza da Heraklion, ed avrebbe voluto scavarvi, ma il proprietario del terreno (che era coltivato a ulivi) per venderlo chiese una cifra esorbitante. In Schliemann allora prevalse il senso degli affari proprio del vecchio mercante e rifiutò, ripromettendosi di ritentare in futuro. Rientrò in Italia dove poco dopo morì a Napoli.

A Cnosso invece, pochi anni dopo, scavò l’illustre archeologo inglese Sir Arthur Evans e fece centro. In diverse successive campagne di scavo protrattesi sino agli anni ’30 del Novecento, portò alla luce la splendida ed antichissima civiltà minoica, cosidetta da Minosse, mitico re di Creta, su cui regnava dal suo palazzo (il Labirinto). Non posso in questi miei brevi appunti dilungarmi minimamente su questa celebre civiltà, che si sviluppò in quell’isola tra il 1900 ed il 1450 circa, se non per quanto attiene strettamente l’argomento da me proposto.

La civiltà minoica derivava abbastanza evidentemente dall’anatolia sudoccidentale, come testimoniano alcune caratteristiche architettoniche degli edifici, ed intratteneva rapporti commerciali con tutto il Mediterraneo orientale e sopratutto con l’Egitto, come testimoniano gli affreschi di alcune tombe (vds quella di Tuthmosis III). E’ stata spesso classificata come “talassocrazia”, con ciò intendendo che la sua potenza era sopratutto marittima, ossia basata sulla propria flotta. Questo concetto deriva dal fatto che nessuna delle tante città minoiche di Creta era circondata da mura difensive, ciò significando che i minoici non temevano invasioni, contando evidentemente sulla superiorità della propria flotta per proteggere le coste dell’isola da eventuali nemici.

L’influenza minoica sui micenei stanziati sulla penisola greca è abbastanza evidente sia nella ceramica sia in alcuni elementi architettonici, come ad esempio le grandi tombe “a tolos”, ossia a falsa cupola, come quella cosidetta di Agamennone, nei pressi di Micene, che trovano il loro prototipo in quelle cretesi. La civiltà minoica scomparve tra il 1500 ed il 1450 a causa della catastrofica eruzione del vulcano di Thera (Santorino), un’isola a circa 40 miglia a nord di Creta, oggi famosa meta turistica. Lo tsunami provocato dal collasso della caldera del vulcano distrusse tutte le città minoiche situate sulla costa settentrionale e la pioggia di cenere e lapilli bruciò la vegetazione ed uccise il bestiame, ponendo così prematuramente fine a questa civiltà. Ancora adesso, sulla sommità dei monti cretesi è possibile trovare frammenti di pietra pomice trasportati da quella eruzione. La catastrofe di Creta permise da lì a pochissimo ai micenei del continente di impossessarsi dell’isola ormai indebolita, immiserita e semispopolata. Già qualche anno dopo il disastro un re miceneo rattoppò il Labirinto e sedette sul trono di Minosse.

I minoici conoscevano anche la scrittura. Ad una prima e più antica scrittura ad ideogrammi, di cui esistono solo pochissimi esemplari, ne seguì un’altra detta “Lineare A”, usata, come in medio oriente, su tavolette di argilla, composta da una ottantina di segni. Visto che ottanta segni sono troppo pochi per una scrittura ideografica e troppi per una scrittura alfabetica, la lineare A era evidentemente una scrittura di tipo sillabico (ogni segno rappresenta una sillaba). Ed è proprio a questo punto che volevo arrivare per ricollegarmi al mondo miceneo.

Dopo gli scavi di Schliemann (a Micene e a Tirinto), ne seguirono altri che portarono alla luce innumerevoli siti micenei, alcuni coincidenti con località “omeriche”, come Pilo, Argo, Sparta etc etc (sino ad Itaca, il chè è notizia dell’estate scorsa), tante altre invece non identificabili, alle quali è stato dato il nome delle località moderne.

Tutti questi siti avevano in comune una particolarità: i rispettivi “palazzi” (intesi come sede del governo locale) risultavano essere stati distrutti all’incirca nella stessa epoca, in un brevissimo lasso di tempo a cavallo del 1200 a.C., cosa che confermava la teoria della distruzione della civiltà micenea a seguito dell’invasione dorica. Inoltre dagli scavi cominciarono ad emergere centinaia di tavolette di argilla incise in una scrittura molto simile alla minoica Lineare A, con la quale aveva anche parecchi segni in comune. Tale scrittura, a seguito della stretta analogia, fu chiamata Lineare B.

Tutto questo confermava la teoria che voleva i micenei “colonizzati” dai minoici sino al 1500/1450, per poi subentrarne dopo le distruzioni apportate dall’eruzione di Santorino. E siccome si era certi della provenienza anatolica (e quindi non indoeuropea) dei minoici, la similitudine delle due scritture confermava l’antica convinzione che neppure i micenei fossero indoeuropei e che le due scritture lineari sottintendessero la medesima lingua, ossia qualche idioma sconosciuto del panorama medio orientale. Pur dovendo ammettere che Troia era veramente esistita e quindi la possibilità che veramente fosse stata combattuta la guerra narrata dai poemi epici, ne conseguiva il convincimento che Omero si fosse appropriato, grecizzandone i nomi, delle imprese compiute secoli e secoli prima di lui da popoli che nulla avevano a che fare con i greci di età storica.

Durante tutti gli anni ’20, ’30 e 40’ del Novecento, attratti dal sempre più cospicuo numero di tavolette in Lineare B che venivano alla luce sia a Pilo, sia a Micene, sia a Tebe che a Cnosso (queste ultime risalenti al periodo miceneo del palazzo), diversi specialisti ed accademici tentarono l’impresa della decifrazione di questa scrittura, ipotizzando che la lingua in cui erano scritte fosse il luvio (idioma dell’anatolia centrale), l’ittita o addiritura l’etrusco. Tutto vano. Il mistero della Lineare B resisteva ad ogni tentativo di decifrazione. L’unica cosa su cui questi illustri signori concordavano era che le tavolette in lineare B non potessero essere scritte in greco…..

Per la soluzione del mistero si dovette attendere il 1952, quando un personaggio del tutto ignoto al mondo accademico, l’inglese Michael Ventris, nel corso di una improvvisata conferenza stampa, annunziò al mondo di esser riuscito a svelare l’enigma e che le tavolette in Lineare B erano scritte (udite udite…) in greco!!! Un greco molto arcaico, primitivo, ma indubbiamente greco.

Michael Ventris, come H. Schliemann, era un dilettante. Prima della guerra, del tutto casualmente, aveva assistito a Londra ad una conferenza di Sir Arthur Evans ed era rimasto affascinato dal problema della lineare B. Laureatosi in architettura, durante la guerra si arruolò nella RAF e prestò servizio come crittografo alla decifrazione dei codici di telecomunicazione della Germania nazista. Alla fine della guerra si procurò le riproduzioni fotografiche di quante più tavolette in lineare B potesse e si mise al lavoro nella convinzione che fosse possibile applicare al problema gli stessi metodi della decrittazione che aveva appreso durante il conflitto, e fece centro. Siccome la sua conoscenza del greco antico era del tutto scolastica, appena ebbe l’intuizione che la lingua delle tavolette potesse essere il greco, nella fase finale del suo lavoro, si fece aiutare dal suo amico John Chadwick, specialista in dialetti greci antichi, ed insieme arrivarono alla soluzione del problema.

L’annunzio della scoperta di Ventris ebbe una risonanza mondiale, pari a quella a suo tempo avuta dalla scoperta di Troia e della tomba di Tut-ank-Ammon, ma la reazione del mondo accademico fu addiritura rabbiosa. E’ destino che gli “specialisti” di una certa materia, che dedicano a quel lavoro tutta la loro vita, reagiscano sempre malamente alle intromissioni nel loro campo d’interesse da parte di estranei, per giunta “dilettanti”, che quel lavoro fanno “a tempo perso”, e la reazione è tanto più rabbiosa quanto più i risultati finali raggiunti dal dilettante smentiscono, anzi, ridicolizzano le teorie elaborate dagli specialisti. Per oltre un decennio il mondo accademico si accanì nel tentativo di dimostrare che i metodi e le tesi di Ventris e Chadwick erano clamorosamente errate, ma alla fine, davanti all’evidenza, seppure a malincuore, dovettero cedere. Applicando il “metodo Ventris” alle nuove tavolette che continuavano a venire alla luce a getto continuo, il risultato era sempre lo stesso: erano tutte scritte in una forma di dialetto greco che fu subito definita “greco miceneo”.

Purtroppo il povero Ventris non riuscì a godersi il meritato trionfo. Morì nel 1956 a seguito di un incidente stradale nei pressi di Londra, all’età di soli 34 anni, ma aveva reso un preziosissimo servigio alla conoscenza delle origini del mondo greco. La sua opera fu portata avanti e perfezionata dal suo vecchio collaboratore, John Chadwick, diventato nel frattempo illustre cattedratico di Cambridge, deceduto nel 1998.

La risoluzione dell’enigma della lineare B portò due importanti conseguenze nella conoscenza delle origini della civiltà greca. Innanzitutto fu chiaro che popoli di lingua greca avevano abitato la penisola ellenica almeno sin dal 1600 a.C. (a tale data si fa risalire l’origine della civiltà micenea), ed erano questi popoli che avevano dato origine alla “saga” della guerra di Troia, prima di esser spazzati via da altre popolazioni greche meno evolute, sino a quel momento stanziate nelle regioni montuose del Pindo e dell’Epiro. Con la caduta dei “palazzi” micenei, intorno al 1200, nella penisola greca era sparita anche la scrittura, che riapparirà solo quattro secoli e mezzo dopo, intorno al 750, ma questa volta derivata dall’alfabeto fenicio.

Un’altra importante conclusione fu la conferma che la civiltà minoica non era di origine indoeuropea. Infatti la soluzione trovata da Ventris per la lineare B non si adattava minimamente alla minoica lineare A, che evidentemente sottintende una lingua completamente diversa e ad oggi rimane sconosciuta. Era chiaro che i micenei avevano preso a prestito la scrittura dai minoici, adattandola alle esigenze della propria lingua.

Infine, com’era logico attendersi, la traduzione delle centinaia e centinaia di tavolette in lineare B aprì un’importante spiraglio sul mondo miceneo ed in particolare sull’organizzazione interna dei “palazzi”. Le tavolette erano mere registrazioni amministrative: inventari di magazzino ossia elenchi di generi alimentari e materiali vari presenti nei magazzini del palazzo, elenchi di nomi maschili e femminili con le rispettive mansioni e le rispettive competenze in termini di razioni di viveri e cose di questo genere. Nulla di eccezionale, però la loro traduzione permise di comprendere meglio tanti piccoli particolari di quel mondo arcaico ormai dimenticato. Ne riparleremo.

(3 – continua)

4. Il mondo miceneo

Anche se può sembrare incongruo con l’argomento trattato (la guerra di Troia), penso sia utile a questo punto dare un’occhiata al risultato dell’analisi dei contenuti delle tavolette in lineare B, anche se in modo estremamente superficiale e sintetico. Visto che è ormai appurato che gli Achei che secondo Omero distrussero Troia altro non erano che greci micenei, ciò potrà consentire di controllare se esistano addentellati con il contenuto dei due poemi e verificare l’attendibilità degli stessi. In seguito mi ripropongo di fare altrettanto con i troiani, anche se sarà molto più difficile. Certo, affrontare in poche righe un argomento che non solo è oggetto di periodici congressi tra gli “addetti ai lavori” (e quindi in continuo divenire) ma è di per sè talmente vasto (ed anche controverso) è una cosa estremamente difficile, ma ci proverò, limitandomi solo ad alcuni aspetti del problema.

Il punto centrale da capire, in estrema sintesi, è il seguente. Posto che la civiltà micenea aveva raggiunto buoni livelli di benessere e di ricchezza, come dimostrano i ricchi corredi funerari di molte tombe comprendenti preziosi oggetti d’oro, d’argento, d’avorio etc etc (tutti materiali assolutamente assenti nella Grecia di 3000 anni fa, come del resto in quella moderna), è del tutto evidente che questi materiali arrivavano tramite il commercio con altri paesi che ne disponevano (in particolare l’Egitto). Altrettanto dicasi per altre merci vitali come ad esempio il bronzo. Siamo nella fase finale dell’età del bronzo e questo metallo ottenuto da una lega di rame e stagno era indispensabile per armi ed utensili da lavoro. Il punto è: cosa offrivano i micenei in cambio di questi materiali? Siccome le tavolette altro non sono che documenti amministrativi di palazzo concernenti l’organizzazione dell’economia, è proprio dalla loro analisi che può emergere la risposta a questa domanda.

Intanto bisogna fare un’importante osservazione. Le tavolette in lineare B erano incise su argilla cruda, che si è poi casualmente cotta a seguito dell’incendio del palazzo in cui erano custodite. Il fatto che fossero incise nell’argilla cruda significa che erano documenti “temporanei”, non destinati ad essere conservati a lungo in archivio. Insomma, erano meri “appunti di lavoro” che servivano a chi era preposto al controllo di determinate attività per espletare al meglio la propria funzione. Dopo un tempo prefissato, quando non erano più considerate utili (presumibilmente al termine della stagione o dell’anno solare), l’argilla veniva reinpastata ed usata nuovamente. Esse sono arrivate sino a noi per puro caso. Ma questo significa anche che i dati e le situazioni in esse contenute sono relative agli ultimissimi mesi o settimane di vita del palazzo. E siccome i palazzi furono distrutti quasi tutti intorno al 1200 (o il 1150, come pensano altri), non è esagerato affermare che esse rappresentano situazioni quanto meno coeve alla guerra di Troia.

Queste tavolette, giunte sino a noi per uno strano scherzo della Storia, sono gli unici documenti scritti del mondo miceneo. Non si può escludere a priori che i micenei usassero la scrittura anche per altri scopi, ad esempio puramente letterari, ma se lo fecero, sicuramente la usarono su tipi di supporti diversi dalle tavolette d’argilla, come ad esempio cuoio, papiro o pelli animali, molto più deperibili dell’argilla cotta, e che quindi non ci sono pervenuti.

Tornando al nostro argomento e a puro titolo d’esempio, è famosa l’analisi effettuata dal francese Luis Godart sulle tavolette dei palazzi di Cnosso e di Pilo riguardanti la gestione dei greggi di pecore e montoni. Dall’analisi risulta che il “Palazzo” di Cnosso disponeva di oltre 100mila pecore (e montoni), distribuite in greggi dislocate in diverse località di Creta, ciascuno affidato ad un pastore che ne rispondeva totalmente verso l’autorità. In questo caso le tavolette enumerano per ciascun gregge la sua consistenza numerica in termini di capi di bestiame maschili e femminili, suddivisi in classi di età, il nome del pastore, la località di dislocazione ed il quantitativo di lana che il pastore dovrà consegnare al palazzo alla fine della stagione, nonchè il numero di montoni “vecchi”, ossia non più adatti alla produzione di lana, che dovrà riconsegnare per la macellazione.

Il quantitativo di lana atteso è in totale di circa 30 tonnellate, dal quale è ragionevole aspettarsi, una volta cardata e filata, almeno 5000 pezze di tessuto. Ecco, questo è già un dato molto interessante. Un’altra serie di tavolette enumera coscienziosamente i nomi dei filatori e dei tessitori, quasi tutte donne, e la loro località di residenza, nonchè i quantitativi di lana affidati a ciascuno di essi per la lavorazione. Chiaramente una parte dei tessuti prodotti veniva utilizzata internamente per gli usi domestici, ma la cospicua eccedenza era certamente usata per proficui scambi con paesi stranieri. In sintesi, ciò che emerge è una capillare ed occhiuta gestione delle risorse, organizzata dal potere centrale sin nei minimi particolari. In base a ragionamenti che non è il caso qui di riportare, il Godart riesce persino a stabilire che il palazzo di Pilo dovette essere distrutto in primavera, mentre quello di Cnosso all’inizio dell’autunno.

Ho citato i risultati dello studio delle tavolette riguardanti pecore e lana, ma altrettanti studi hanno riguardato le tavolette concernenti la coltivazione e produzione di grano, di orzo, di olio (anche profumato) nonchè la lavorazione del bronzo, sotto forma di quantitativi di metallo affidati a singoli operai metallurgici (tutti citati per nome e località di residenza). Quella che emerge da questi studi è una economia fortemente centralizzata e pianificata dal “Palazzo”, anche nei minimi particolari, che doveva essere stata ispirata da quella dei “palazzi” minoici, e molto simile a quella contemporanea dell’Egitto e dei paesi del Vicino Oriente.

I materiali da esportazione di cui parlavo inizialmente erano, con tutta evidenza, i tessuti, i vasi decorati (rintracciati negli scavi in molte località del Levante, Egitto compreso) e probabilmente l’olio profumato, di cui, dalle tavolette, pare che Micene fosse grande produttrice. E’ da presumere che annualmente, con la buona stagione, le navi micenee salpassero verso i porti del Mediterraneo orientale cariche delle loro merci, riportando in patria metalli preziosi oltre che lingotti di rame (specialmente da Cipro, principale centro di estrazione nell’antichità) e di stagno.

Altre importanti serie di tavolette costituiscono veri e propri inventari di magazzino: vari tipi di vasi, tripodi, armi, punte di frecce, di lance, carri e ruote per carro. E qui mi ricollego con quanto avevo fatto notare in un precedente capitolo circa l’uso del carro da guerra nell’Iliade. Il fatto che i greci micenei avessero nel loro arsenale carri da battaglia conferma che questo particolare riportato nei poemi omerici è sicuramente antico ed autentico, anche se il poeta non ne conosceva più l’uso pratico e li descrive come semplici mezzi di locomozione.

Per quanto concerne l’organizzazione statale, va innanzitutto precisato che nulla lascia presumere l’esistenza di uno stato unitario miceneo. Quella che emerge è una realtà costituita da una miriade di piccoli reami (alcuni un pò più estesi come il regno di Pilo che comprendeva l’intera Messenia, o quello di Cnosso che doveva comprendere tutta la parte centrale e orientale di Creta) a capo dei quali vi è un monarca assoluto indicato con il titolo di Wanax, che in greco classico (con la caduta del “digamma” iniziale) si è trasformato in “Anax” = signore, padrone (il Dominus latino) ed il conseguente verbo “anassein” = signoreggiare. Anche di questo aspetto, se vogliamo, possiamo cogliere un vago riflesso nell’Iliade: gli Achei non sono un’armata compatta che combatte sotto un’unica bandiera; sono una coalizione formata da contingenti armati, provenienti da diverse realtà statali, ciascuna capeggiata dal proprio re.

Il Wanax miceneo ha anche una forte valenza religiosa visto che dalle tavolette risulta che officia in prima persona diverse funzioni nei templi principali del suo reame. Insomma, appare come una specie di re-sacerdote. D’altra parte, un riflesso della “sacralità” del Wanax si conservò nel greco classico, dove l’appellativo “anax” è usato solo in riferimento alle divinità.

Un’altra importante carica (probabilmente seconda solo al Wanax) è quella del “lawagetas” che non ha un vero corrispondente nel greco classico, ma al cui significato si può risalire etimologicamente, considerando che lawas corrisponde a laos (= popolo in armi) e quindi il suo significato letterale dovrebbe essere “conduttore di schiere” ossia comandante dell’esercito. Nelle tavolette emerge anche la carica di “basilewe” corrispondente al “basileus” (= re) del greco classico, ma non è del tutto chiaro a quale tipo di magistratura o di carica si possa riferire. Dal contesto in cui il termine è impiegato, sembrerebbe che in età micenea i basileis fossero a capo di piccoli villaggi del circondario, in posizione del tutto subordinata al Wanax. Resta il fatto che, con la caduta dei palazzi e la conseguente fine della loro organizzazione, il termine basilewe (basileus) finì per designare la massima carica statale, forse perchè, distrutto il potere centrale del Wanax, furono queste piccole autorità periferiche ad assicurare la continuità della vita pubblica.

La fine del mondo miceneo avvenne in modo brusco verso la fine del periodo che gli archeologi indicano come Tardo Elladico III B (periodizzazione basata sullo stile della ceramica) che corrisponde all’ultimo quarto del XIII sec. A.C., ossia tra il 1225 e il 1200 a.C.

La maggior parte dei siti micenei venne distrutta da violenti incendi e si determinò un chiaro spostamento di popolazioni: alcuni di questi siti vennero abbandonati (sopratutto nel Peloponeso), altri furono ricostruiti e continuarono ad essere abitati ma con un brusco decremento della popolazione (Micene). Viceversa si assistette ad un incremento di popolazione micenea in zone al di fuori della Grecia, dove erano già presenti alcune colonie di mercanti, come Rodi, la Cilicia (Tarso) e sopratutto nell’isola di Cipro. La distruzione dei siti del Peloponeso appare quasi contemporanea, anche se la precisione dei metodi di datazione non consente di discriminare intervalli di tempo molto brevi.

Con i centri del potere (i palazzi) sparì anche la scrittura e con essa l’unico spiraglio aperto su quel mondo. In Grecia riapparirà sotto forma di alfabeto fenicio solo poco meno di cinque secoli dopo, e allora le aree che prima usavano il greco miceneo si scopriranno parlare il dialetto dorico (molto diverso dal miceneo). Di questo lungo periodo di silenzio, detto “Medioevo Greco”, non si conosce praticamente nulla, al di fuori dell’evoluzione della ceramica che dallo stile miceneo passò gradualmente a quello submiceneo e poi protogeometrico ed infine geometrico.

Tutto questo non è di facile interpretazione per lo storico, anche a causa dei pochissimi dati certi. Inizialmente, come è logico, la distruzione dei “palazzi” micenei fu fatta coincidere con l’invasione dei popoli dorici. A questa conclusione sembrerebbe portare anche la scoperta avvenuta negli anni ’60 dell’inizio della costruzione di un muro difensivo miceneo inteso a sbarrare l’istmo di Corinto, opera colossale ma non portata a termine, evidentemente finalizzata a difendersi da una aggressione da nord. Tuttavia più recentemente la teoria “dorica” è stata criticata sotto molti punti di vista e sono state proposte molte teorie alternative, nessuna delle quali molto soddisfacente.

A rendere perplessi molti degli studiosi contemporanei è il problema della cosidetta “invisibilità archeologica” dei Dori. Quando un popolo si sostituisce ad un altro in un certo territorio, l’archeologo di solito nota un più o meno brusco passaggio da un certo stile di ceramica ad un altro completamente diverso, oppure l’introduzione di soggetti e di oggetti di forma e stile completamente nuovi. Nulla di tutto questo è emerso finora dai numerosi scavi effettuati. La ceramica di stile miceneo prosegue tranquillamente la sua evoluzione, senza risentire di particolari influenze barbariche, e neppure sono state ritrovate tipologie di vasi o suppellettili riferibili ad una nuova popolazione. L’invasione dorica è, appunto, archeologicamente invisibile.

Numerose sono le ipotesi formulate in alternativa ad una distruttiva invasione dorica. Qualcuno ha ipotizzato che i Dori fossero già presenti sul territorio e costituissero la massa del popolo e che la lingua micenea fosse parlata solo dall’elite dominante. Secondo questi studiosi la distruzione dei palazzi sarebbe dovuta ad una sorta di sollevazione popolare più o meno simultanea che costrinse alla fuga l’elite micenea, rifugiatasi, come abbiamo visto, fuori dalla Grecia. Altri propongono una variante secondo cui i Dori affluirono a piccoli gruppi, chiamati forse dai micenei come mano d’opera oppure come milizia mercenaria ed abbiano poi preso il sopravvento. A conforto di queste tesi viene citata la stessa letteratura epica greca che inizialmente non era limitata alla guerra di Troia, ma comprendeva anche un certo numero di poemi riguardanti i ritorni in patria (i “nostoi”) degli eroi greci, dei quali è sopravvisuta solo l’Odissea. Anche se queste opere non ci sono pervenute, sappiamo dagli accenni che ne fanno numerosi autori antichi che tutti questi personaggi, arrivati in patria, vi trovarono situazioni destabilizzate per vari motivi e dovettero sudare parecchio per sedersi nuovamente sul loro trono. Tuttavia tutte queste tesi hanno il difetto di non spiegare sufficientemente la famosa muraglia difensiva la cui costruzione era stata avviata attraverso l’istmo di Corinto.

Un’altra ipotesi contempla la possibilità che i regni micenei siano crollati a seguito di una sanguinosa guerra intestina e i Dori si siano poi impossessati di un paese già impoverito e dissanguato. Infine è stata anche avanzata l’ipotesi che il crollo dei palazzi sia stato provocato da una serie di grandi catastrofi naturali, ad esempio terremoti oppure anche una disastrosa siccità prolungatasi per anni (ma quest’ultima è smentita dal contenuto delle stesse tavolette in lineare B, in cui non appaiono problemi nelle coltivazioni e nell’allevamento del bestiame).

Personalmente io rimango tradizionalista e continuo a perseguire l’ipotesi dell’invasione dorica. Non vi sono tracce archeologiche del loro arrivo? Bè, non è la prima volta che un fenomeno del genere avviene. Neanche l’arrivo delle popolazioni slave nella penisola balcanica ha lasciato tracce archeologiche, ma sappiamo con assoluta certezza che è avvenuta (ed anche tutti i relativi particolari tramandatici dalle cronache bizantine).

(4 – continua)

5. Troia e dintorni

Dovrei ora tentare di dipingere un quadro attendibile della situazione troiana, simile a quello che (indegnamente) ho tracciato della società micenea. Uso il condizionale perchè l’impresa è resa ancora più ardua dall’assoluta mancanza nella Troade di fonti scritte, sia pure modeste e limitate come le tavolette in lineare B, sino a date molto più avanzate di quelle che stiamo trattando. Il discorso dovrà pertanto essere di tipo esclusivamente archeologico, e quindi noiosissimo.
Prima tuttavia di parlare di Troia, mi corre l’obbligo di fare una precisazione che in qualche modo chiarisce anche il mio pensiero in merito. Nonostante quel che comunemente si pensa, l’identificazione di Troia con il sito scoperto da Schliemann sulla collinetta di Hissarlik non può ancora essere ritenuta certa. E siccome sono sempre stato dell’opinione che l’archeologia sia una scienza e non una branca delle discipline umanistiche, mi associo totalmente a quanto scrisse l’archeologo inglese James Mellaart nel 1978 nel suo “The Archeology of Ancient Turkey”, e che riporto integralmente:
“l’identificazione di Hissarlik con l’omerica Troia non è ancora stata provata: l’identificazione si basa unicamente sulla premessa che, se mai esistette una Troia nella regione dove Omero e la tradizione greca dicevano che sorgesse la città, questa poteva stare soltanto nella località di Hissarlik, che si trova in posizione strategica e da dove si potevano dominare le strade commerciali di terra e di mare che passavano per i Dardanelli “.
In altre parole, data l’assenza della scrittura in quell’area, durante gli innumerevoli scavi ivi effettuati dal 1872 in poi, nessun cartello stradale è mai emerso con la scritta: “Benvenuti a Troia, comune denuclearizzato”, e neppure steli o altro tipo di iscrizioni che ne confortino l’identificazione. Insomma, dobbiamo fidarci di quanto “stabilì” il dilettante Schliemann e di quel che pensavano i greci di età classica (che però di “cantonate” ne prendevano parecchie…).
Detto questo, prima di occuparci di Troia, bisognerà spendere due parole su un’altra città di quella zona, molto più antica di Troia, dalla quale, molto probabilmente, la stessa Troia derivò. Alludo a Poliochni (nome moderno della località), sita sull’isola di Lemno, proprio di fronte a Troia, che fu fondata addiritura intorno al 4000 a.C.. Era circondata da un muro in pietra con due torri che fiancheggiavano una stretta porta, ed era lunga circa 250 metri. All’interno le case erano del tipo detto “megaron” ossia edifici a forma rettangolare con un atrio ed un portico sul lato corto, attraverso cui si entrava, ai quali potevano essere aggiunte altre stanze sussidiarie. Con il trascorrere del tempo, l’abitato si espanse anche fuori delle fortificazioni e intorno al 2500 ne furono costruite di nuove, munite di formidabili contrafforti. La fine di Poliochni è da porsi intorno al 2000 a.C. e l’ho citata unicamente perchè, dato il tipo di ceramica che è lo stesso della fase iniziale di Troia, si potrebbe pensare che quest’ultima altro non sia che una “filiazione” della più antica Poliochni.
Il sito della collina di Hissarlik è caratterizzato da 10 città ciascuna delle quali ricostruita sulle rovine della città precedente e convenzionalmente numerate a partire dalla più antica (corrispondente allo strato più basso) alla più recente (lo strato più superficiale) con numeri romani da I a X. In ciascuna “Troia” è poi possibile distinguere diverse fasi edilizie (distinte con le lettere a,b, c etc etc) ed eventuali sottofasi, contraddistinte con numeri arabi 1, 2, 3 etc etc. Troia IX corrisponde alla città di età ellenistica e poi romana, della quale ci disinteresseremo, così come ci disinteresseremo anche della successiva Troia X che è l’abitato di epoca bizantina, che fu sede di un vescovado sino al completo abbandono del sito, avvenuto verso il 1000 d.C.
L’altura di Hissarlik altro non è che un piccolo pianoro, originariamente sopraelevato di circa 15 metri sulla pianura circostante, che nel corso dei millenni venne quasi livellato dall’accumulo dei detriti lungo i fianchi, avente forma all’incirca ellittica (circa 130 x 110 mt, ossia poco più vasto di Piazza Europa). I versanti settentrionale ed occidentale erano originariamente molto scoscesi e quindi molto facilmente difendibili, mentre quelli orientale e meridionale declinavano molto dolcemente e richiesero invece possenti opere di fortificazione.
Il fiume Scamandro anticamente scorreva in direzione sud-nord ad occidente della collina, quasi lambendone le pendici, per buttarsi poi quasi subito nel mare che, sino a tutto il periodo miceneo, si inoltrava profondamente nel territorio, tanto che si potrebbe dire che la prima Troia fu edificata quasi sull’estuario del piccolo fiume. Poi, a partire dal 1200 a.C. circa, i detriti trasportati dallo Scamando e dal Simoenta fecero retrocedere rapidamente la linea di costa, tanto che intorno al 700 a.C. (l’epoca di Omero) la geografia del luogo doveva già presentarsi più o meno simile a quella di oggi, con vaste zone paludose.
Troia I fu costruita intorno al 3000 a.C., sulla sommità dell’altura di Hissarlik, forse come colonia di Poliochni, probabilmente per meglio controllare i traffici via terra e via mare che si svolgevano attraverso lo stretto dei Dardanelli. Dopo poco tempo Troia I fu circondata da un muro di pietra, al cui interno è stato localizzato un grosso megaron, lungo circa 16 mt, accompagnato da altri edifici minori che formavano un complesso che è stato identificato come la probabile residenza del capo della comunità. Nel sito di Troia I è stato rinvenuto uno dei primi esemplari di bronzo con stagno, il chè fa supporre collegamenti con la Boemia dove esistevano i più vicini giacimenti di quel metallo, che era indispensabile per costruire bronzo di buona qualità. La città quindi si trovava proprio sulla “via dello stagno” (e “dell’ambra”) che collegava il centroeuropa, tramite i Dardanelli, alle ricche civiltà mediorientali. A conferma di questi contatti con l’Europa continentale, va rilevata anche la presenza di ceramica caratteristica di Troia I lungo la costa settentrionale dell’Egeo, in Macedonia e nell’attuale Bulgaria. Non si tratta tuttavia di espansione territoriale, bensì, più probabilmente, di singole colonie di mercanti ivi stabilite. Non è però neppure chiaro se queste influenze, più che da Troia I, non provenissero invece da Poliochni, all’epoca molto più sviluppata e popolosa di Troia I.
Troia I fu distrutta da un catastrofico incendio intorno al 2600 a.C. e venne immediatamente sostituita da Troia II avente più o meno le stesse dimensioni. All’interno delle nuove mura vi erano diversi megaron, il più ampio dei quali (certamente la dimora del sovrano) lungo 35 mt. E’ questa la città che Schliemann ritenne (erroneamente) essere la Troia cantanta da Omero, e, per metterla alla luce il “dilettante” tedesco sbancò buona parte degli strati soprastanti, ignaro che la città che stava scavando era di oltre 1000 anni più antica di quella che stava cercando, recando così un danno incalcolabile alle possibilità di una perfetta conoscenza del sito. Troia II raggiunse rapidamente un buon livello di benessere se non di ricchezza, testimoniato sia dai ricchi corredi funerari delle due necropoli sino ad ora trovate, sia dal fatto che nello strato Troia IIf o Troia IIg (entrambi distrutti dal fuoco) Schliemann rinvenne il famoso “tesoro di Priamo”, una incredibile raccolta di gioielli in oro zecchino (recipienti,collari, diademi, bracciali, orecchini e spille), lapislazzulo e cristallo di rocca, splendidamente lavorati e rifiniti, che forniscono una prova notevolissima dell’alto livello di ricchezza e di sofisticazione artistica raggiunta da Troia in quel periodo. Il “tesoro di Priamo” fece bella mostra di sè al museo di Berlino sino al termine della 2^ guerra mondiale. Razziato dalle truppe sovietiche, sembrava perduto per sempre, finchè, qualche anno fa il governo russo annunziò che la collezione era presente e visitabile nel Museo Puskin di Mosca. In questa fase Troia dovette conoscere una rapida espansione anche dei suoi traffici marittimi e tenere collegamenti anche con il lontano Egitto, visto che in una tomba di Dorak (una località nei pressi di Troia) è stato rinvenuto un frammento di mobiletto in legno laccato con il cartiglio del faraone Sahure (V dinastia, 2470 a.C. circa).
Anche Troia II, nella sua fase “f”, finì in un catastrofico incendio intorno al 2400 a.C., come del resto molti altri centri abitati dell’Asia Minore in quello stesso periodo, il chè ha portato ad ipotizzare una invasione di popoli proveniente dall’Europa, attraverso i Dardanelli, la cui larghezza all’imboccatura è solo di alcune centinaia di metri e non costituisce certo un ostacolo credibile ad una migrazione.
Non volendo abusare della pazienza del lettore sorvolo direttamente su Troia III (2400-2200 a.C.), Troia IV e V (2200-1700 a.C.) e mi soffermerò invece sulla fase finale di Troia VI, che fu distrutta intorno al 1270 a.C., Troia VIIa (distrutta all’incirca nel 1200 a.C.), e Troia VIIb1 (distrutta intorno al 1100 a.C.) che sono le maggiori “indiziate” nell’ottica della nostra rapida indagine.
Dopo la fine di Troia II si assiste ad un graduale impoverimento del sito, sino alla fase VI, nella tarda età del bronzo, allorchè la cittadina conobbe un nuovo momento di benessere. Le mura intorno alla collina erano state ripetutamente rinnovate e rinforzate (segno indubbio dell’inquietudine dei tempi) e Troia VI, vista da sud e da est, risultava protetta da un’imponente baluardo in pietra, spesso alcuni metri, dotato sulla cima di un cammino di ronda protetto da parapetti e di alcune torri, anch’esse in pietra, atte a proteggere le due porte della cittadella, che si aprivano una verso sud e l’altra verso nord-est. Verso nord le fortificazioni erano assai meno imponenti, grazie, come già detto, al fatto che la stessa collina presentava una scarpata molto ripida e quindi facilmente difendibile. Sul lato interno della muraglia correva una strada lastricata ed erano presenti alcuni magazzini e altri edifici presumibilmente abitazioni di “notabili” e/o templi (ma mancano elementi sufficienti per decidere in un senso o nell’altro). Gli edifici avevano tutti le fondamenta in pietra ed anche le pareti erano in pietra sino ad una altezza di circa 2 metri. Al di sopra di questa quota erano sopraelevate ulteriormente con mattoni. Il tetto (molto probabilmente piatto o con piccolissima inclinazione) aveva le travature in legno ed era ricoperto di cannicci e di uno strato di terriccio. All’interno della cinta muraria esistevano anche un paio di pozzi, in uso sin dalle primissime fasi di vita della città. Cosa ci fosse nella zona centrale dell’area è ignoto, in quanto è la zona letteralmente sbancata da Schliemann durante i suoi scavi.
Come abbiamo visto, l’area racchiusa dalle mura era molto piccola e non poteva racchiudere una numerosa popolazione come si potrebbe pensare leggendo l’Iliade. La collina di Hissarlik appare più che altro come una piccola “acropoli”, ossia una specie di castello (ed infatti in turco Hissarlik significa proprio “castello/fortezza”) che racchiudeva i principali templi cittadini e le abitazioni dell’elite di governo, oltre ad alcuni magazzini.
La conferma di questa tesi arrivò nel 1988 dagli scavi condotti dall’archeologo tedesco Korfmann, che riuscì ad individuare i resti di una “città bassa”, esistente sin dai tempi di Troia II, che si estendeva verso sud ai piedi della collina, appena fuori della porta meridionale (a tutt’oggi la cosidetta “città bassa” è stata scavata solo parzialmente e non è quindi possibile stimarne con precisione l’estensione che dovrebbe tuttavia aggirarsi intorno ai 250mila metri quadri). Le case della città bassa sono tutte del tipo a “megaron”, costruite interamente in mattoni e di dimensioni decrescenti via via che ci si allontana dalle mura della rocca. Insomma, l’impressione è che le famiglie più benestanti abitassero più vicine alle mura dell’acropoli, in case anche di vaste dimensioni, mentre quelle più povere stessero in periferia, in casette molto piccole.
Un problema che sussiste a tutt’oggi è rappresentato dal fatto che la città bassa sembra non disporre di una propria protezione muraria atta a difenderla verso l’esterno. Nulla che assomigli ad un muro di cinta difensivo è stato finora trovato. Korfmann localizzò i resti di una palizzata che però svaniscono dopo qualche decina di metri e che verosimilmente appartenevano ad un recinto per il bestiame. L’unico indizio che potrebbe far pensare all’esistenza di un qualche apprestamento difensivo potrebbe consistere in un lungo fossato, largo 3 metri e profondo 2, che (per quanto ad oggi scavato) sembra correre tutto intorno all’abitato, interrotto in un paio di punti come in corrispondenza di varchi o di porte. Come opera di difesa sembrerebbe un pò poco, ma alcuni interpretano questo fossato come atto a difendere l’abitato da incursioni di carri da battaglia, del tipo in uso presso i greci micenei. Ma è solo un’ipotesi senza alcuna possibilità di conferma (potrebbe trattasi anche di un’opera di irrigazione).
Anche se Omero, nell’Iliade rappresenta i troiani in stretto contatto con i greci micenei (secondo la “saga” troiana, Paride con le sue navi si reca in visita di cortesia a Sparta, donde poi se ne fuggirà con Elena) e con costumi ed usanze simili a quelle greche, la realtà molto probabilmente era diversa. Nelle due necropoli della città la ceramica micenea è scarsissima (non più del 5% del totale, che scenderà al 3% nelle fasi successive a Troia VI) e ciò è indice sicuro di scarsi contatti tra le due civiltà.
Korfmann, che è un acceso sostenitore (come lo era Schliemann), della storicità dei fatti narrati dall’Iliade, ritiene che Troia VI sia quella cantata da Omero e distrutta dagli Achei. La città risulta infatti devastata (come le precedenti) da un violentissimo incendio che Korfmann data al 1270 a.C. (ma in precedenza era stato datato al 1300). Recentemente alle teorie di Korfmann si è violentemente opposto Dieter Hertel, professore di Archeologia Classica all’università di Colonia, che negli anni ’90 ha partecipato ad alcune campagne di scavo a Troia. Hertel è un convinto “negazionista”, nel senso che non attribuisce alcun valore storico ai poemi omerici, e nel suo libro “Troia. Archäologie, Geschichte und Mytos” sostiene vivacemente la tesi che Troia VI fu distrutta da un terremoto e non da un esercito nemico. A sostegno delle sue idee, Hertel fa notare che sotto lo strato dei detriti provocati dai crolli non furono trovati nè scheletri, ne resti di armi e neppure reperti di un qualche valore, prova, secondo lui, che la popolazione (forse preavvertita da qualche scossa premonitrice), fece in tempo a fuggire portandosi via quanto era possibile. Il fatto che siano evidenti le tracce di un catastrofico incendio è da lui spiegato asserendo che a causa del sisma (come spesso avviene) le torce ed i focolari accesi, appiccarono il fuoco alle travi in legno delle abitazioni crollate a seguito del sisma. Una spiegazione che mi lascia personalmente un pò perplesso (se la gente era fuggita, come facevano ad esserci fuochi accesi?), ma che è condivisa da diversi altri studiosi.
Comunque siano andate le cose, Troia fu ancora una volta immediatamente ricostruita con una pianta assai poco differente. In pratica le rovine furono spianate, ricostruendo direttamente su di esse e molti edifici quasi integri furono semplicemente rattoppati. In pratica Troia VIIa nacque quasi come fotocopia di Troia VI, sebbene sia evidente un leggero calo del tenore di vita della popolazione (le nuove case sono più piccole e costruite con una tecnica più approssimativa).
Anche Troia VIIa, a soli 70 anni dal disastro che segnò la fine di Troia VI, venne distrutta da un terrificante incendio, ancora più esteso di quello provocato dal sisma (?) del 1270. In tutto il sito sono stati rinvenuti consistenti strati di legname combusto, mattoni anneriti dal fuoco e pietre calcificate dal calore. Nulla manca degli ingredienti che Hertel ritiene indici di una conquista con la forza: numerose ossa umane sparse all’interno delle mura ed un intero scheletro rattrappito ai piedi del muro orientale, con il cranio fracassato. Non mancano neppure le armi: punte bronzee di freccia e di lancia sparse ovunque e appena fuori della porta meridionale, persino tre piccoli cumuli di piccole pietre arrotondate, identificate come proiettili per fionda. Troia VIIa fu presa dunque con la forza? Nossignori. L’ineffabile Hertel trova molto da obiettare: le ossa sono troppo malridotte per poter risalire alla causa della morte (in effetti dopo oltre 3000 anni è un pò difficile…) e lo scheletro ai piedi delle mura secondo lui potrebbe far parte di una sepoltura di epoca posteriore. E le armi? Beh, quelle erano appese in panoplie alle pareti delle abitazioni e sono cadute a terra quando i muri sono crollati….. Come vedete il nostro tenace “negazionista” è pronto a qualsiasi contorsionismo mentale pur di non dare soddisfazione al suo acerrimo avversario Korfmann.
In ogni caso, anche questa volta l’abitato venne ricostruito, con tecnica sempre più povera e approssimativa, sfruttando per la ricostruzione i muri rimasti in piedi. Ma la nuova città (Troia VIIb1) presenta una novità: accanto alla solita ceramica tipica troiana abbastanza raffinata e lavorata al tornio, si rinvengono in questo strato numerosi esemplari di un nuovo tipo di vasellame, molto più grezzo e lavorato a mano detto Barbarian Ware o Coarse Ware, tipico della Bulgaria nord-orientale e della Romania orientale di quell’epoca. Ovviamente il buon Hertel esclude che i portatori di questa ceramica possano essere i “conquistatori” di Troia VIIa, e si affretta a precisare che molto probabilmente è gente affluita in zona “dopo” l’incendio, approfittando del parziale spopolamento.
Naturalmente anche Troia VIIb1 fu distrutta dal solito incendio, intorno al 1100 a.C. (forse un pochino prima). Ma a questo punto conviene disinteressarci della successiva storia archeologica del sito, in quanto ci stiamo allontanando dal periodo che ci interessa.
La Troia distrutta dagli Achei di Omero poteva essere soltanto Troia VI o Troia VIIa. Oppure, ma proprio tirando la storia per i capelli, Troia VIIb1. Vale solo la pena aggiungere che i primi segni di presenza greca nell’area, emergono solo a partire dal 1000 a.C. (Troia VIII), quando il sito era ormai molto rimpicciolito e impoverito. Questo, in sostanza, è quanto ci dice l’archeologia. Non è molto, ma dobbiamo farcelo bastare.
In conclusione, se ce la sentiamo di infischiarcene delle teorie che vogliono Troia VI distrutta da un sisma, e diamo fiducia ad Erodoto che pone la caduta della città un pò prima dell’invasione dorica, ed ammettiamo che quest’ultima sia avvenuta intorno al 1200, allora dovremo identificare (con Korfmann) Troia VI con quella cantata da Omero. Viceversa, se diamo buona la teoria del terremoto, dovremo ripiegare su Troia VIIa, magari supponendo che la calata dorica e la distruzione dei palazzi micenei sia avvenuta nel 1180 a.C,, come suppongono in molti. Infine, se neghiamo del tutto l’esistenza di un’invasione dei dori (teoria dell’invisibilità archeologica della loro discesa), potremo sempre ripiegare su Troia VIIb1. In ogni caso dovremo tener presente che, mentre Omero descrive Troia come una città grande, ricca e potente, la realtà archeologica ci dice che in quel periodo essa era una cittadina piuttosto piccola e certamente non ricca. In Anatolia all’epoca c’erano certo città molto più grandi e opulente, come il sito di Beycesultan, Mileto e sopratutto la capitale dell’impero ittita Hattusas, nelle vicinanze dell’attuale Ankara. Troia ci appare soltanto come un modesto capoluogo di provincia.

(5. continua)

6. Cantami o Diva del Pelide Achille…

Arrivati a questo punto della nostra indagine è giunta l’ora di esaminare i poemi omerici, unici documenti scritti riguardanti la guerra di Troia, per controllare se e quanto, dal punto di vista della critica storica (non certo da quello letterario o poetico), possano essere affidabili circa i fatti in essi riportati. In altri termini bisogna verificarne “l’attendibilità storica”, problema che già Tucidide, massimo storico della Grecia antica, si era posto ai suoi tempi. Per far questo è necessario comprendere bene quale sia stata l’origine di questi poemi ed il meccanismo secondo cui si sono formati. In altre parole bisogna addentrarci, almeno parzialmente, nella famosa “questione omerica” che fino a qualche decennio fa ha tormentato intere generazioni di studenti liceali e che ora, fortunatamente, sembra esser stata definitivamente risolta, almeno nelle sue linee essenziali, anche se su questioni secondarie e collaterali spesso le idee degli addetti ai lavori sono tutt’ora divergenti.

Al problema della formazione dei poemi omerici, vorrei però anteporre una questione linguistica. I due poemi sono scritti in un linguaggio che già ai greci di epoca classica doveva suonare “strano”. A parte gli inevitabili e molteplici arcaismi, essi sono stati scritti in un misto di dialetto ionico (60%) ed eolico (40%) e, nel loro insieme, già nei tempi della Grecia classica dovevano dare al lettore un’impressione simile a quella che oggi danno al lettore italiano i romanzi di Camilleri, scritti in un italiano infarcito da forme dialettali siciliane. In epoca storica, com’è noto, tutta la costa occidentale dell’Asia Minore, prospiciente l’Egeo, era densamente abitata da popolazioni greche che nella Troade erano di dialetto eolico e per il resto (Efeso, Alicarnasso, Mileto etc etc) parlavano quello ionico. Questo fatto fu inizialmente interpretato come una conferma dell’origine asiana (ossia dell’Asia Minore) di Omero e giustificava pienamente le sue descrizioni geograficamente perfette dei dintorni di Troia: le descrizioni, si pensava, erano esatte perchè il poeta stesso era nato da quelle parti e quindi conosceva bene i luoghi per esserci vissuto. Oggi si ritiene che il “linguaggio omerico” fosse caratteristico della stessa poesia epica e che fosse perciò comune a tutte le composizioni di quel tipo, forse proprio perchè non tanto Omero ma la stessa poesia epica vide la luce su quella sponda dell’Egeo.

Nonostante la questione dell’origine dell’epica omerica fosse stata dibattuta per almeno due secoli da filologi e grecisti, il merito di aver fornito la chiave atta a comprendere pienamente il problema appartiene indiscutibilmente ad una coppia di antropologi americani, il prof. Adam Parry ed il suo collaboratore Albert Lord che tra gli anni ’30 e ’50 del Novecento condussero approfonditi studi sulla trasmissione orale della poesia epica tra i popoli illetterati della Jugoslavia meridionale (Bosnia), intervistando più volte a Novi Bazar (e registrando su nastro) l’ultimo grande rapsodo della tradizione bosniaca Avdo Mededovic, che era appunto egli stesso illetterato e recitava tra popolazioni sostanzialmente all’epoca ancora illetterate. Altro formidabile apporto fu dato a questo tipo di ricerca dall’inglese Jack Goody, oggi docente a Cambridge di Antropologia Sociale, il quale condusse analoghe ricerche tra le popolazioni ancora illetterate dell’Africa Occidentale negli anni ’50. Ci vollero quindi gli antropologi per arrivare là dove i filologi, con il loro dogmatismo, non erano riusciti ad arrivare.

Una delle caratteristiche della poesia orale (ossia concepita e tramandata tra genti che non conoscono la scrittura) scoperta dal Parry è la “formularità” della composizione, ossia il continuo ricorso da parte del poeta (o del cantastorie che dir si voglia) a frasi standardizzate per esprimere lo stesso concetto. Con il Parry possiamo definire la formula “un gruppo di parole regolarmente impiegato nelle stesse condizioni metriche per esprimere una data idea essenziale”.Il frequente ricorso a formule preconfezionate, lunghe anche alcuni versi, aiuta notevolmente il compito dell’aedo che se ne avvale ampiamente per la “costruzione” della sua esposizione. Anzi, si potrebbe dire che l’antico aedo pensava e poetava “per formule”, schemi descrittivi sempre ripetuti in momenti tipici della narrazione.

Che l’Iliade e l’Odissea fossero poemi almeno in origine “orali” emerge immediatamente dalla constatazione della continua ripetizione di “formule” standard sia per caratterizzare i personaggi, sia per descrivere determinati tipi di azioni (battaglie, banchetti, assemblee etc etc). Esempio pratico di formula standardizzata (il primo che mi viene in mente): nell’Odissea, ogni volta che il poeta vuole dire che una certa azione si svolge all’alba, ricorre SEMPRE al medesimo verso:

“Emòs d’erigheneia fane rododactulos Eos”

ossia:

“Quando, figlia di luce, brillò l’Aurora dita rosate”

Il poeta usa sempre lo stesso verso, senza cambiarne una parola, ogni volta che gli occorre specificare che l’azione che segue ha luogo al sorgere del sole, classico esempio di impiego di una “formula” tramandata e oserei dire cristallizzata dall’uso attraverso i secoli. Ma questo è solo uno degli innumerevoli esempi di formularità ricorrenti nei due poemi, il primo che mi è venuto in mente senza mettermi a scartabellare per trovarne altri. Lo stesso concetto di formularità vale spesso anche per gli aggettivi qualificativi di personaggi o popoli. Achille è sempre “piè veloce”, anche se nell’Iliade non ha modo di far risaltare questa sua qualità. Ulisse è sempre definito “polutropos” ossia “ricco d’astuzie”, Agamennone è “anax andròn”, ossia “Signore di eroi (di uomini)”. Sono evidentemente appellativi tradizionali, cristallizzati dall’uso continuativo, che l’aedo ripete meccanicamente nella sua recitazione. Spesso queste formule standard affondano la loro origine in un passato lontanissimo, forse addiritura “miceneo”. Ad esempio i Danai sono spesso definiti “iphtimoi”, aggettivo di cui neppure più i greci di età classica conoscevano il significato e che noi oggi traduciamo con “gagliardi / forti”, ma, diciamocelo francamente, tirando ad indovinare.

L’evidente struttura formulare dei poemi omerici ci porta quindi ad una prima importante conclusione, ossia che essi furono ideati e concepiti in un ambiente “orale”, in assenza di scrittura, e quindi in quello che abbiamo definito “Medioevo Greco”, nel periodo successivo alla sparizione della lineare B micenea e prima che, nella seconda metà dell’ VIII secolo a.C. comparisse in Grecia la scrittura alfabetica di tipo fenicio. Il tutto con buona pace dell’intera critica letteraria e filologica del ‘700, dell’800 e di buona parte del ‘900 che vedeva un Omero seduto al tavolino, intento a scrivere i suoi poemi.

Ma le ricerche antropologiche del Parry e dei suoi seguaci han portato anche ad altre importanti conclusioni. Innanzitutto han dimostrato l’impossibilità pratica per un cantastorie (o aedo, o rapsodo che dir si voglia) di ricordare esattamente a memoria, in assenza di supporto scritto, un poema così lungo come l’Iliade (sono oltre 15mila versi). Ciò significa una cosa sola: in origine esistevano diversi poemi molto più brevi, tutti incentrati sullo stesso argomento di fondo (ossia, nel nostro caso, la guerra di Troia) che venivano recitati singolarmente, fine a sè stessi, probabilmente dietro richiesta del pubblico. Solo in un secondo tempo, e certamente solo quando fu disponibile la scrittura, essi furono “assemblati” e riadattati, rimasticati e collegati l’uno all’altro in modo da formare un unico, lunghissimo poema epico. Vogliamo chiamare Omero colui che ebbe questa grande ispirazione? Benissimo, chiamiamolo pure Omero, in via del tutto convenzionale. Egli impiegò certamente molto materiale non suo, che gli era stato tramandato dai secoli precedenti, ma molto ci mise anche di suo sia nel collegare tra loro le varie parti del poema, sia nel’unificarne e renderne omogeneo lo stile. Di quest’ampia opera di “redazione” (come spesso viene chiamata), rimangono numerose tracce, ossia i tanti “errori” o “aporie” che costellano l’Iliade (una volta considerate “dimenticanze o distrazioni” del poeta), come ad esempio tutti quei personaggi che muoiono in battaglia in un certo canto e qualche canto dopo miracolosamente resuscitano e tornano a combattere, chiaro indizio di assemblamento di materiale avente origini diversificate.

Altro tipico esempio di come l’Iliade altro non sia che un assemblaggio di cantiche disparate, lo troviamo nel canto III, quando l’esercito acheo si schiera sotto le mura di Troia, ed Elena, dall’alto delle mura, indica a Priamo e agli altri notabili troiani i principali eroi greci con nome e provenienza. L’azione dell’Iliade si svolge nel nono anno di guerra, e non è credibile che Elena attenda nove anni prima di “presentare” a Priamo gli avversari, che ella conosce molto bene di persona. Evidentemente tutto il brano è stato tolto di peso da qualche altro poema (poi andato perso) che trattava della guerra di Troia (probabilmente i Canti Ciprii) e si riferiva ai momenti iniziali del conflitto, quando i greci si schierarono sotto le mura per la prima volta.

Ma dall’opera del Parry si possono dedurre ben altre conclusioni. Innanzitutto, e questo è stato abbondantemente appurato anche con indagini presso le popolazioni illetterate della Polinesia (negli anni tra le due guerre mondiali) e dell’Amazzonia, l’impossibilità, in una cultura illetterata, che la tradizione puramente orale conservi memoria di un evento per più di tre generazioni, ossia un centinaio d’anni. Anche se l’evento è di rilevante impatto su quella società, col passare del tempo i particolari sfumano e svaniscono e/o vengono sempre più deformati, ingigantiti o ripiccioliti, o mescolati ad altri inventati di sana pianta, finchè di quello che in origine era veramente successo nulla o quasi nulla rimane.

Il poeta “orale” è molto immaginifico e non riesce a ripetere, neppure a breve distanza di tempo, lo stesso poema nella medesima forma. Parry fece recitare una prima volta al cantore Mededovic un noto poema epico slavo, facendolo trascrivere tramite stenografia e cinque anni dopo glielo fece ripetere registrandolo su nastro magnetico, ed ebbe modo di constatare un buon 15% di differenze tra le due versioni. Lo stesso Mededovic ammise di non saper ripetere due volte di fila lo stesso poema nella medesima formulazione poichè egli, nel recitare, improvvisava.

La recitazione dell’aedo era inoltre sempre grandemente influenzata dal pubblico con il quale si stabiliva un solido rapporto di empatia. L’aedo incantava il pubblico con la propria capacità di affabulazione e, viceversa, era a sua volta trascinato dalla reazione del pubblico ad ampliare o semplificare determinate parti del poema, che non veniva semplicemente “recitato” ma veniva cantato con accompagnamento della cetra e spesso anche di strumenti a fiato, in ciò facilitato dalla ritmicità dell’esametro greco. Ecco perchè sia l’Iliade che l’Odissea (e così certamente anche gli altri canti per noi persi) iniziavano tutti con una supplica alla Musa, che aiutasse il rapsodo e lo ispirasse durante la recita, che era anche momento di ispirazione. Insomma, come disse un noto critico, l’epica, con il tempo, tende sempre a “crescere su sè stessa”.

Nel prossimo “capitolo” cercherò di concludere questa panoramica a volo d’uccello e, possibilmente, trarre qualche conclusione.

(6. continua)


7. Il mondo di Omero

Quale fosse l’atmosfera in cui venivano recitati i poemi epici nella Grecia arcaica ci è ottimamente descritto dallo stesso Omero (quasi certamente aedo egli stesso) nel canto VIII dell’Odissea, quando il naufrago Ulisse si trova alla corte di Alcinoo, re dei Feaci. Nella vasta sala dalle pareti di pietra, illuminata dalle torce e dal focolare, il re siede a banchetto con gli ospiti, circondato dai suoi servi e alla fine fa chiamare il cantore Demodoco e gli chiede di narrare la caduta di Troia, con l’accompagnamento della lira:

“….e questi venne nel mezzo e intorno dei giovani

nel primo fiore gli stettero, i più esperti di danza,

e battevan coi piedi il ritmo divino: Odisseo

l’agile gioco dei piedi ammirava e stupiva nel cuore.”

Gli aedi giravano di paese in paese, accompagnati da moglie, figli e qualche “apprendista” che lo aiutavano e intanto imparavano il mestiere ascoltando il Maestro e memorizzandone il repertorio. In cambio ricevevano vitto e alloggio, ma spesso venivano anche onorati con doni prestigiosi ed erano sempre ovunque bene accetti, visto che le occasioni di svago a quei tempi dovevano essere davvero minime.

Il loro repertorio era costituito da canti piuttosto brevi (non più di due o trecento versi) incentrati su uno dei grandi “filoni” d’avventure allora di moda. Tramite Omero siamo venuti a conoscenza dell’epopea riguardante la guerra di Troia, ma ne dovevano esistere almeno altri due, assai importanti e più antichi, di cui abbiamo notizia solo attraverso gli autori classici: quello riguardante la guerra dei Sette contro Tebe e quello che raccontava il viaggio degli Argonauti che, al seguito di Giasone, si erano imbarcati sulla nave Argo alla volta della Colchide (attuale Crimea) alla ricerca del Vello d’Oro (quest’ultimo ciclo dovette influenzare almeno in parte l’Odissea stessa).

Come ho già spiegato nella “puntata” precedente, il cantore, non essendo il testo fissato in forma scritta, di fatto improvvisava di volta in volta (e qui stava la sua abilità), non esitando ad aggiungere nel testo riferimenti a personaggi che sapeva graditi al suo ospite, come ad esempio qualche antenato glorioso le cui gesta spesso venivano trasportate “di peso” nella recitazione.

Quando la scrittura iniziò a circolare nuovamente, il materiale concernente il ciclo troiano cominciò, poco per volta, ad essere messo per iscritto e ad essere “organizzato” in modo da formare un “unicum”. Questo processo certamente durò parecchi anni, anche perchè la scrittura, anche se cominciò a diffondersi intorno al 750 a.C., era certamente appannaggio di pochi e assai poco diffusa. In ogni caso, il ciclo troiano doveva essere già popolarissimo e molto noto intorno alla metà del VII sec. A.C., visto che attorno alla metà di questo secolo sulla ceramica decorata cominciano ad apparire personaggi e scene tratte dai poemi omerici. Anche Esiodo, che scrive intorno al 600 le sue due opere (la “Teogonia” e “Le Opere e i Giorni”) già lo conosce bene e vi fa riferimento.

Anche se a quel punto una parte del testo doveva essere certamente già stata fissata per iscritto, la “comunicazione” del poema era tuttavia sempre orale, e ciò continuò a permettere ancora per qualche tempo che l’epica iliaca continuasse a “crescere su sè stessa”, finchè verso la fine del VI secolo a.C. (intorno al 520), il tiranno di Atene Pisistrato ordinò un completo riordino dell’opera e la sua definitiva stesura in forma scritta. Pisistrato poi dispose anche che l’Iliade venisse recitata sempre in occasione delle Feste Panathenaiche.

La revisione ed il riordino ordinato da Pisistrato (ma anche le periodiche rappresentazioni dell’opera durante le festività) ebbero l’effetto di “congelare” e ufficializzarne il testo in forma più o meno definitiva. Ormai la fama e l’autorevolezza di Omero (suo supposto autore) era tale che diventava sempre più difficile modificare il contenuto del poema, anche se qualcosa continuò ad essere aggiunto. Ad esempio, anche ad un esame abbastanza superficiale del linguaggio e dello stile, appare chiaro che alcune parti furono ancora inserite, come ad esempio il canto II (il cosidetto “Catalogo delle Navi”, dove vengono elencati tutti i contingenti che presero parte alla guerra con la loro consistenza numerica ed i personaggi di maggior spicco) ed anche i canti V (le gesta di Diomede) e X (la cosidetta “Doloniade”), brani del tutto avulsi dalla trama generale del poema. Tuttavia anche questi brani di più recente redazione conservano un alto grado di interesse, in quanto i loro autori certamente si rifecero a materiale poetico molto antico e perciò molto interessante. La “geografia politica” del mondo acheo rappresentato nel Catalogo delle Navi è molto aderente all’idea della Grecia micenea che ci siamo fatti per altra via ed il canto dedicato esclusivamente a Diomede, personaggio che nel resto del poema è nominato solo di sfuggita, fu probabilmente tratto “di peso” da un’altra opera a noi sconosciuta. Diomede vi è detto “re di Argo”, località assai vicina a Micene, ma nel resto dell’opera Argo risulta far parte del regno di Agamennone. Inoltre egli rappresenta (come del resto lo stesso Achille) il tipico guerriero miceneo, rivestito di bronzo (molti altri eroi dell’Iliade hanno già armamenti di ferro), armato di una lunga e pesantissima lancia e sopratutto del suo scudo a forma di otto, tipica forma degli scudi micenei, a noi nota dalle rappresentazioni sulla ceramica di quel periodo.

L’Iliade giunta sino a noi non è tuttavia quella della redazione pisistratea del VI secolo, ma di una ulteriore revisione operata intorno al 250 a.C., in epoca alessandrina, che tra l’altro ne stabilì la suddivisione in canti così come oggi la conosciamo. Ci sono tuttavia buoni motivi per credere che, a meno delle evidenti aggiunte di cui ho parlato sopra, il testo sia sostanzialmente quello originario del 520. Vale anche la pena accennare al fatto che l’Iliade, nella sua selvaggia e barbarica bellezza, rappresenta la più antica opera letteraria europea ed in qualche modo fu decisiva nel far sì che i popoli ellenici cominciassero a sentirsi, almeno culturalmente, una “nazione” nel vero senso della parola, in nome di quella “strana” alleanza che, secondo il poema, aveva riunito tutti i popoli della penisola contro un comune nemico.

E’ giunto ora il momento di chiedersi quale valore storico (non certo letterario o poetico) dare agli scritti omerici. Furono veramente ispirati ad un evento realmente accaduto? La risposta, per quanto esposto sopra, non può che essere estremamente dubitativa. Sia chiaro: non mancano anche fervidi sostenitori del valore storico dell’Iliade (l’Odissea offre problematiche di altro tipo), come ad esempio lo storico Luciano Canfora (che per altro è specializzato in storia romana ed è autore di una splendida biografia di Giulio Cesare, edita da Laterza), ma bisogna tuttavia ammettere che le probabilità che il poema si ispiri ad una guerra di Troia realmente accaduta, sono estremamente esigue. Ad esempio, sarebbe di grande conforto poter essere sicuri che già in epoca micenea (o pochissimo dopo) esistessero cantori girovaghi che cantavano le gesta di eroi popolari, ma le tavolette in lineare B non citano personaggi di questo genere tra i dipendenti del “palazzo”. Certo, questo non significa che non ne esistessero, ma non lo conferma neppure. E neppure l’archeologia, come abbiamo visto, ha riscontrato consistenti presenze micenee sulle coste egee dell’Asia Minore, anzi, come già detto a proposito dell’archeologia troiana, sembrerebbe che anche i contatti commerciali tra la troade e la grecia fossero quasi inesistenti. Gli interessi commerciali dei micenei erano più che altro indirizzati verso il Mediterraneo orientale e l’Egitto, anche se qualcuno sostiene la tesi secondo cui l’ipotetico conflitto con Troia potrebbe rivelare un tentativo di espansione commerciale nel Mar Nero (forse riflesso anche dalla saga degli Argonauti), per arrivare direttamente ai metalli caucasici, bypassando così gli intermediari mediorientali, accesso arcignamente presidiato dalla cittadella troiana.

D’altra parte nell’Iliade esistono certamente alcuni indizi “micenei”, che tuttavia, a parte isolati reperti linguistici, riguardano sopratutto la descrizione di “oggetti”. A parte i carri da battaglia, le armi di bronzo di alcuni eroi ed i loro scudi a forma di otto, di cui già si è detto, famosa è la descrizione di un elmo composto da zanne di cinghiale tenute unite fra di loro, di cui si è rinvenuto un esemplare in una tomba micenea del XIII secolo, assolutamente aderente alla descrizione che ne fa Omero.

Ma, ad esempio, le istituzioni e gli ordinamenti sociali che si possono desumere dai due poemi, ben poco hanno a che fare con le istituzioni micenee dedotte dalle tavolette in linere B, e riflettono sopratutto quelle dei secoli bui del Medioevo greco, periodo in cui i poemi furono inizialmente concepiti. L’impressione generale è di un forte “anacronismo”, simile a quello di molti quadri del Quattrocento e del Cinquecento in cui scene della Passione o dei Vangeli sono rappresentate con personaggi drappeggiati in abiti e su sfondi di palazzi rinascimentali. In altre parole i poeti che nel corso dei secoli concorsero alla formazione dei due poemi, sebbene nel testo abbiano precisato più volte che i fatti descritti si svolgevano “in un passato lontanissimo”, di fatto poi li ambientarono in quello che era il loro presente, forse perchè non sapevano immaginare che quello.

Faccio due famosi esempi. Agamennone, il capo della spedizione, è re di Micene ed il suo nome è sempre accompagnato da titoli altisonanti, eppure gli altri re achei lo trattano come un “primus inter pares”, spesso rivolgendosi a lui in modo assai poco rispettoso. D’altra parte, una delle poche cose certe che desumiamo dalle tavolette in lineare B è che il “Vanax” miceneo era una specie di autocrate, una autorità che riassumeva in sè (come nelle monarchie orientali dell’epoca) le funzioni di re e di Gran Sacerdote. Ma Agamennone, olgni volta che deve prendere una decisione importante, deve convocare il “consiglio” degli anziani, ossia chiama a raccolta gli altri re e confida a loro i suoi problemi, ascoltandone rispettosamente il parere, sopratutto quelli del vecchio Nestore, re di Pilo, che anzi, sembra avere sempre l’ultima parola. Ma non basta. La decisione definitiva deve sempre essere sanzionata da tutto l’esercito, chiamato a raccolta in assemblea, dove anche il più umile soldato ha diritto di dire la sua. Classico esempio è l’episodio di Tersite, un umile fante, che si alza e contraddice violentemente il parere del Gran Capo Agamennone. La reazione di Ulisse che lo riporta a più miti consigli somministrandogli una buona razione di legnate con il suo (nodoso) scettro, non vale a cancellare la sostanza del discorso: Tersite viene redarguito e bastonato non già perchè ha contraddetto Agamennone, il chè appare come un suo diritto, bensì perchè si è rivolto a lui in modo villano e screanzato. In sostanza la situazione sociale assomiglia all’arcaica democrazia tipica dei popoli indoeuropei ancora in stadio di semi-barbarie, come ad esempio le popolazioni galliche e germaniche descritte da Giulio Cesare nel De Bello Gallico. Però già si avverte una sensibile evoluzione: è vero che il Capo sente ancora l’obbligo di convocare l’assemblea del popolo per discutere il da farsi, ma è anche vero che nell’Iliade ciò è già percepito come una fastidiosa formalità, alla quale non ci si può sottrarre. Inoltre è già chiaro l’emergere prepotente di una aristocrazia, basata sopratutto sulla stirpe e sul valore militare, rappresentata dai capi di ciascun contingente e dai loro luogotenenti. Essa vuole sempre essere consultata dal Capo della spedizione e spesso si dimostra insofferente alla sua autorità. Gli esperti sono propensi a credere che questa situazione sia tipica del X o forse IX secolo a.C., e quindi è molto illuminante dei secoli bui del Medioevo greco.

Nell’Odissea, poema con tutta evidenza concepito alcune decine di anni dopo l’Iliade, si può osservare come la situazione sia già ulteriormente evoluta verso un’ulteriore marginalizzazione dell’assemblea. Anche se, a differenza dell’Iliade, l’Odissea è ambientata nel mondo civile e non militare, il concetto è analogo. Nel II canto Telemaco raduna l’assemblea del popolo per illustrare la situazione ed annunziare la sua partenza per Pilo e per Sparta, per tentare di avere da Nestore e Menelao notizie del padre, che manca ormai da Itaca da 20 anni. Ma il popolo non è riunito per ricevere consiglio e neppure per ottenerne un avvallo, del quale evidentemente Telemaco non ha bisogno (come invece ne ha Agamennone nelle assemblee dell’esercito). I tempi si sono ulteriormente evoluti e Telemaco riunisce il popolo solamente per comunicare una decisione che ha già preso. Anzi, minaccia pure. I Proci con i loro quotidiani banchetti si stanno divorando tutto il bestiame che fa parte dei “beni della corona”. Una volta che saranno finiti, che nessuno si illuda di intaccare i beni personali di Ulisse: toccherà al popolo mantenere a spese sue quella folla di mangia pane a tradimento. A questo proposito, appare molto interessante la netta distinzione tra i beni “personali” del sovrano (quelli da lui posseduti privatamente prima di essere re e quelli conquistati per bottino di guerra) e quelli assegnati alla “funzione”, ossia i “beni della corona”, che il popolo è tenuto ad assegnargli, una volta salito al trono, per le spese di rappresentanza. Tutto questo, più altre osservazioni di questo tipo che si potrebbero fare, oltre che convalidare il sospetto che nulla di “miceneo” vi sia nei due poemi per quanto riguarda usi, costumi e istituzioni, ci apre tuttavia preziosi spiragli proprio su quei secoli “bui” di cui quasi nulla si sa.

Un’altra deduzione molto importante su come funzionassero le cose nella Grecia di IX o VIII secolo si può trarre analizzando il comportamento di Penelope, dei Proci e di Telemaco. Telemaco, nell’Odissea, ha ormai 20 anni ed è quindi adulto a tutti gli effetti. Pertanto ci si attenderebbe che rivendicasse in proprio il trono di Itaca, vista la perdurante assenza di Ulisse. Invece non ci pensa neppure. Esorta la madre a decidersi, e in sostanza le dice: “Guarda che i tuoi pretendenti ci stanno mangiando tutto. I casi sono tre: o ti decidi a sceglierne uno tu stessa, oppure te lo scelgo io, oppure ancora, torni da tuo padre (l’ex re di Itaca prima di Ulisse) e ti fai scegliere da lui uno sposo”. Da ciò si deduce che la successione al trono, nella Grecia di quel tempo, non è affatto regolata per via ereditaria. Vige il principio che “è re colui che sposa la figlia del re”, cosa per altro confermata dall’episodio di Ulisse tra i Feaci. Nausicaa, figlia del re Alcinoo, si innamora dell’avvenente straniero e lo supplica di sposarla, diventando così re dei Feaci. E’ un tipo di successione al trono molto simile a quella in vigore in Egitto proprio in quei tempi, dove la regalità si trasmetteva per linea femminile: era Faraone chi sposava la primogenita del Faraone (e ciò spesso spingeva a matrimoni incestuosi tra fratello e sorella, allo scopo di mantenere il potere in famiglia).

Cosa possiamo concludere da quanto detto? Semplice: i due poemi omerici sono inattendibili sotto il profilo storico, pur fornendo qualche raro  elemento genuinemente miceneo (ma solo per quanto riguarda la descrizione di oggetti). Sono invece utilissimi per comprendere alcuni aspetti sociali e organizzativi della Grecia dei “secoli bui”, durante i quali furono concepiti.

(7. continua)

8. La guerra di Troia: un “mito di fondazione”?

Come abbiamo visto nelle discussioni precedenti, appena si cerca di approfondire il tema della guerra di Troia, ci troviamo inevitabilmente a vagare nella nebbia più fitta. E non può essere altrimenti. Nella storia antica non esistono nè enigmi nè misteri. Esistono solo lacune di conoscenza che riguardo a questo argomento sono particolarmente pesanti e fan sì che le opinioni degli “esperti” nel merito siano quasi sempre divergenti. Proprio la scarsità di elementi certi fà sì che ognuno sia libero di pensarla come vuole dando più o meno peso a questo o a quello dei fattori considerati. In pratica ogni studioso della materia ha partorito una propria teoria, più o meno verosimile, più o meno accettabile, nessuna delle quali, tuttavia, può ritenersi pienamente soddisfacente.

A puro titolo di esempio riassumerò ora quella, molto recente, formulata dall’archeologo Dieter Hertel che, come già detto, è un convinto negazionista della storicità della guerra, almeno nei termini che Omero lascia intravvedere. La ritengo interessante, anche se, inevitabilmente, anche questa ipotesi presenta alcune notevoli forzature.

Hertel fonda la propria tesi partendo dall’analisi di quella che chiama “la saga di Troia” nella sua completezza, nella forma in cui era raccontata in età classica. Preciso che per “saga di Troia” (o “ciclo” troiano) non si vuole intendere la sola Iliade, ma tutta la storia della guerra di Troia e dei suoi annessi e connessi considerati nel loro insieme. L’Iliade infatti, contrariamente a quello che farebbe intendere il suo titolo, non ha affatto la guerra di Troia come soggetto. La guerra ne costituisce solamente lo sfondo mentre il poema è in realtà incentrato sulla contesa tra Achille ed Agamennone e si conclude ben prima della conquista di Troia (la vicenda del famoso cavallo e la caduta della città è narrata, di sfuggita, solo nell’Odissea).

Nella sua analisi Hertel rileva subito come la saga di Troia si presenti come un mito “stratificato”, ossia un mito nel quale ad un nucleo centrale originario, si sono in tempi diversi aggiunti personaggi e vicende inizialmente estranee, sino a diventare così come si presentava ai tempi di Tucidide ed Aristotele. Insomma, un mito fatto a strati come le bucce di una cipolla. L’obiettivo che si pone lo studioso tedesco è quello di identificarne il nucleo originario attorno al quale si è addensato il resto della narrazione.

Innanzitutto Hertel fa giustizia sommaria dell’origine e del finale della vicenda. Che una guerra di tali dimensioni e di tale portata sia stata originata dalla contesa per una donna è del tutto inverosimile (e di ciò, del resto, erano già convinti gli stessi greci antichi). Elena, infatti, appare subito come un personaggio semi-mitologico e quindi assai poco credibile: figlia del re di Sparta Tindaro ed anche sorella dei Dioscuri (Castore e Polluce), è la donna più bella del mondo e già da ragazzina viene rapita da Teseo (!!) per poi essere salvata e riportata a casa dai due fratelloni. Giunta in età da marito, la sua mano viene immediatamente richiesta da tutti i principi achei (tranne Achille, il quale probabilmente preferiva l’amichetto Patroclo), ma Tindaro, prima di scegliere il fortunato consorte, impone a tutti i pretendenti un giuramento, ossia di impegnarsi ad aiutare con le armi il marito di Elena, chiunque egli fosse, qualora essa fosse stata nuovamente rapita.

Questa fu dunque, secondo il mito, l’origine dell’alleanza tra tutti i popoli achei contro Paride Alessandro, reo di aver sedotto e portato Elena (ed i beni di Menelao) nella sua città, Troia, infrangendo così uno dei più antichi e sacri tabù dell’antichità, quello dell’ospitalità (Paride era stato accolto come ospite a Sparta da Menelao). All’alleanza poi parteciperà anche Achille, nonostante non ne fosse obbligato dal giuramento.

Anche il finale della saga viene preso di mira da Hertel. Giustamente egli fa notare come il trucco del cavallo di Troia sia uno stratagemma storicamente assai poco credibile, probabilmente immesso forzatamente nel racconto allo scopo di fornire un lieto fine alla vicenda. Secondo lui le mura di Troia (che egli ha contribuito a scavare, e quindi conosce assai bene), alte una quindicina di metri, erano semplicemente imprendibili per gli eserciti ed i mezzi bellici del tempo, ed infatti, a conferma di ciò, non è noto alcun caso di città coeve cadute in seguito ad un assedio. La saga troiana quindi, sempre secondo Hertel, doveva inizialmente prevedere il fallimento dell’impresa ed il rientro in patria del contingente acheo.

Hertel poi esamina tutti i personaggi implicati, allo scopo di individuare quelli aggiunti via via e quelli che invece erano, a suo dire, inseriti nel nucleo originale della saga. In campo troiano, il vecchio re Priamo ha una numerosissima prole, di cui Ettore è il primogenito (ed erede al trono) e Paride Alessandro il secondogenito. Ettore nell’Iliade è raffigurato come “l’eroe buono”, un valoroso guerriero che ama la sua patria ed è pronto a sacrificare la vita per essa, mentre Paride è un personaggio del tutto negativo, donnaiolo, imbelle e codardo. Eppure Hertel ritiene (forse giustamente) che in origine l’eroe troiano per eccellenza doveva essere proprio quest’ultimo e lo stesso appellativo di “Alexander”, che in greco significa “colui che respinge gli uomini” (ossia i nemici), lo confermerebbe. D’altra parte è proprio Paride che comanda la flotta troiana e torna a Troia carico di bottino, ed è ancora lui che uccide in battaglia proprio Achille, il più forte degli eroi achei. Ettore, per Hertel, è quindi un personaggio posticcio, inserito apposta per poter sminuire Paride (che sarebbe il vero difensore di Troia) secondo le esigenze del copione.

Anche nel campo acheo Hertel fa carne di porco di molte figure (che, ad esempio, Diomede fosse un personaggio aggiunto in un secondo momento, avevamo detto anche prima) e conclude la sua lunga analisi (che ometto per brevità) indicando in Achille e Filottete gli autentici comandanti greci nella versione originaria del mito. In effetti, egli fa notare, Achille, Filottete e Paride sono gli unici personaggi di tutta la saga che compiono “veramente” azioni decisive per l’esito della vicenda: Achille comanda la spedizione e conquista isole e villaggi troiani, Paride uccide Achille ed è a sua volta ucciso da una freccia scagliata da Filottete. Tutti gli altri personaggi sono puramente “decorativi” nel senso che partecipano ai combattimenti senza per altro incidere sull’esito della storia.

A questo punto Hertel fa notare come sia Achille che Filottete siano originari della stessa regione della Grecia. Achille è re di Ftia e la sua arma preferita è una lancia di legno di frassino proveniente dal monte Pelion, sito nella vicina penisola di Magnesia, mentre Filottete è proprio re di Magnesia. A questo punto inserisco una breve parentesi per parlare di Filottete, personaggio assai poco noto del ciclo. All’inizio della guerra, durante il viaggio verso Troia, subì una ferita che si rivelò inguaribile, la cui piaga non si rimarginava mai ed emetteva un puzzo orribile, tanto che i suoi compagni furono costretti ad abbandonarlo sull’isola di Lemno. Solo più tardi, grazie ad una profezia secondo cui Troia sarebbe caduta solo dopo la morte di Paride che però (sempre secondo le profezie) poteva essere ucciso solo con le frecce di Ercole (che erano in possesso di Filottete), i greci tornarono sull’isola a prelevarlo. Filottete, appena lasciata l’isola, guarì d’incanto e potè così uccidere Paride con le sue frecce fatate.

In definitiva, Hertel così conclude il suo ragionamento:

“Il livello più antico della saga si enuclea in una narrazione che comprendeva solamente le battaglie sostenute da Achille nella Troade e a Troia, la sua uccisione da parte di Paride sotto le mura della città e la morte di quest’ultimo per opera di Filottete.Tutto il resto fu aggiunto da un poeta dell’ VIII secolo (Omero), che pescò abbondantemente dal repertorio epico, anche appartenente ad altri cicli, già in suo possesso.”

Dopo aver così ridotto “all’osso” il mito di Troia, Hertel (pur essendo sostanzialmente un negazionista) ammette che questo nucleo originario della potrebbe trarre origine da un episodio, forse anche marginale, realmente accaduto, ma esclude categoricamente che esso possa aver avuto luogo in epoca micenea.

Dopo aver fatto notare che i primi greci che riuscirono a stabilirsi definitivamente a Troia intorno al 1000 a.C. (Troia VIII), erano di dialetto eolico e provenivano proprio dai territori originari di Achille e Filottete, egli ipotizza che il loro definitivo stanziamento nella troade possa esser stato preceduto da altri tentativi non riusciti. Secondo lui, intorno al 1100 (e forse anche più tardi), una spedizione capitanata da Achille e Filottete, dopo essersi impadronita di alcune isole troiane (Sciro, Lesbo e Tenedo, come narrato nella stessa Iliade) e di una ventina di villaggi nella Troade (anche questo è scritto nell’Iliade) si presentò davanti a Troia e venne affrontato da Paride che, dopo aver ucciso Achille, fu a sua volta ucciso da Filottete. In ogni caso Troia non cadde e i greci dovettero tornarsene a casa senza essere riusciti a stabilirsi sul territorio avversario. Quando, qualche decina di anni dopo, i conterranei dei due eroi greci riuscirono finalmente a stabilire una colonia permanente in una Troia ormai quasi disabitata, ancora memori delle imprese di Achille e Filottete, elaborarono una versione “eroica” di questo antico fatto d’arme, creando apposta un lieto fine allo scopo di giustificare la loro presenza e potersene vantare.

Capisco che il tutto possa apparire alquanto contorto ed elaborato, ma il ragionamento fila abbastanza. In buona sostanza per Hertel il mito della guerra di Troia sarebbe un “mito di fondazione”, atto a spiegare e giustificare la presenza greca in terra troiana intorno al 1000. Per “mito di fondazione” si intende un racconto tradizionale (anche fantastico) atto a spiegare il perchè e le modalità della nascita di una città o di un popolo o anche semplicemente di un tempio. A titolo di esempio, anche la storia di Romolo e Remo appartiene a questa categoria di miti, così come l’arrivo di Enea e dei suoi troiani sul litorale laziale che, mischiandosi con gli indigeni, avrebbe dato origine al popolo latino.

L’idea è buona e interessante, anche se presenta alcuni punti deboli. Ad esempio, Achille e Filottete sono personaggi autenticamente di epoca micenea. Anzi, quasi mitologici: Achille è figlio di Teti che è una divinità, e Filottete riceve in dono le frecce mortifere addiritura da Ercole. Situarli entrambi a capo di una spedizione nel 1100/1050 a.C. è un vero e proprio anacronismo, un pò come mettere Garibaldi alla testa della Resistenza anti nazista. Ma Hertel se la cava brillantemente ammettendo che i nomi dei veri protagonisti probabilmente erano diversi, ma che in seguito, quando fu “edificata” la saga, ad essi vennero dati i nomi dei due antichi eroi nazionali.

(8. continua)


9. Alaksandu di Wilusa

Dopo aver esaminato le fonti “omeriche”, per chiudere definitivamente l’argomento, dobbiamo prender atto di aver commesso una grave dimenticanza. Le tavolette in Lineare B parlano solo in termini di inventari e sterili elenchi di personale, e nella nostra ricerca non possono essere di grande aiuto. A Troia e dintorni la scrittura non esisteva proprio e, come abbiamo visto, i poemi omerici, pur essendo l’unica documentazione scritta che parli della mitica guerra, per i vari motivi che abbiamo esaminato, sono tutt’altro che affidabili. Però è anche vero che nel Mediterraneo orientale vi erano altri popoli di antichissima civiltà presso i quali la scrittura era presente da svariati secoli, con i quali sia i greci micenei che, forse, i troiani erano in contatto commerciale ed anche politico. Alludo principalmente all’Egitto dei Faraoni ed al potente impero Ittita. E’ possibile che presso almeno una di queste civiltà si sia conservato il ricordo di eventi concernenti Troia e la guerra contro gli Achei?

Per quel che è arrivato sino a noi dall’Egitto di quei tempi (principalmente iscrizioni eseguite in tombe, templi ed edifici funerari) l’Egitto conosceva certamente i micenei e, prima di loro, i minoici che compaiono in diverse pitture murali, in atto di portare “doni”. In realtà quelli che gli egizi spacciavano per “doni” fatti da rappresentanti di popoli stranieri al faraone, altro non erano che normali scambi commerciali. I minoici, nelle raffigurazioni egizie, sono sempre indicati come “uomini di Keftiu (Creta)”, mentre i micenei (diversi per abbigliamento), che sostituiscono le immagini dei minoici a partire dal 1450 a.C., sono indicati come “abitanti delle Isole nel Grande Verde”. Cosa gli egizi intendessero con “Grande Verde” è difficile dirlo. Forse volevano indicare il mare Egeo, e pensavano che il Peloponeso fosse anch’esso un’isola, così come Creta. Nomi di popoli micenei sono presenti anche nelle iscrizioni del faraone Ramesse III, come facenti parte dei Popoli del Mare che intorno al 1200 a.C. tentarono di conquistare il Delta del Nilo, provenendo da ovest (probabilmente da Cirene che era colonia micenea) e furono duramente sconfitti in una battaglia navale. Alludo principalmente ai Peleset che, dopo la sconfitta, chiesero ed ottennero da Ramesse III l’autorizzazione a stanziarsi nella terra di Canaan, nei pressi dell’odierna Gaza. Essi furono poi noti agli Ebrei, con i quali si scontrarono duramente, con il nome di Filistei, e tutt’ora dal loro etnico deriva il nome della regione: Palestina. Scavi condotti nei dintorni di Gaza hanno infatti portato alla luce molta ceramica di stile miceneo, che conferma l’origine micenea di quel popolo. Ma della vicenda dei “Popoli del Mare” parleremo più a lungo nella prossima (e ultima) puntata. Inutile cercare altre notizie da parte degli egizi, popolazione sostanzialmente egocentrica, cui molto poco interessava quel che accadeva fuori dei propri confini, tanto da avere una mentalità quasi isolana.

Molto più promettenti invece, almeno in prima approssimazione, appaiono le fonti ittiti. Gli Ittiti erano un popolo indoeuropeo, inizialmente stanziato, pare, nella zona meridionale della penisola anatolica, che all’inizio del XVII secolo a.C. cominciò a muoversi verso nordest e in breve riuscì a costituire un forte regno nell’area centrorientale dell’attuale Turchia, ponendo la loro capitale ad Hattusa, nei pressi dell’attuale cittadina turca di Bogazköi, un centinaio di chilometri ad est di Ankara. Gli Ittiti raggiunsero il massimo della loro potenza intorno al 1300, quando, dopo aver sottomesso parte dell’attuale Siria e del Libano, puntarono decisamente a sud, minacciando direttamente anche l’Egitto di Ramsete II. Con la grande battaglia di Qadesh (1277 a.C.), conclusasi in sostanziale (sanguinosa) parità, gli ittiti rinunziarono ad ulteriori conquiste verso sud e gli egizi si dovettero rassegnare a perdere la loro influenza su Libano e Siria.

L’interesse strategico degli Ittiti era sostanzialmente quello di garantirsi gli approvvigionamenti di metallo: il rame da Cipro e lo stagno dalla penisola balcanica, entrambi indispensabili per fabbricare il bronzo. Non può quindi esserci dubbio che in un modo o nell’altro essi dovettero essere in rapporto con Troia, per la quale passava la “via dello stagno”, ed anche con le città micenee, visti i loro interessi nel mediterraneo orientale.

Fortuna ha voluto che negli scavi della loro capitale Hattusas, ed in particolare del palazzo reale, sia emerso un ricco archivio “diplomatico”, contenente molte tavolette scritte in caratteri cuneiformi ma in ligua ittita, che rappresentano buona parte della corrispondenza diplomatica in uscita e in arrivo degli ultimi due secoli di vita di quel regno. Inoltre molti dei principali sovrani Ittiti hanno lasciato delle loro “cronache”, ossia dettagliati resoconti delle loro gesta, a memoria dei successori.

Sono ormai decenni che l’interesse degli studiosi della civiltà micenea è appuntato su quegli scritti nell’ansiosa speranza di poterne trarre qualche notizia “di prima mano”, che non sia cioè passata attraverso il tritacarne di qualche poeta epico, posteriore di qualche secolo.

Nell’affrontare questa spinosa questione, ovviamente a volo d’uccello (altrimenti non ne usciremmo vivi…), va premesso che ad una buona comprensione dei testi ittiti si oppongono almeno tre ordini di motivi:

la non perfetta conoscenza della lingua ittita, per cui, in alcuni casi, il significato di determinate parole rimane oscuro ed ambiguo;

lo stato frammentario e rovinato di molti di questi testi;

l’estrema difficoltà, in molti casi, di comprendere correttamente a quali regioni geografiche attuali corrispondano i toponimi che compaiono nei testi. A volte i riferimenti geografici sono chiari e precisi, altre sono vaghi e ambigui. Questo, come vedremo, è un ostacolo che riveste grande importanza ai fini del nostro problema.

Nel gran numero di tavolette di carattere diplomatico, le uniche che ci interessano sono quelle relative ai rapporti con gli stati meridionali ed occidentali della penisola anatolica. Gli Ittiti non vollero mai annettere direttamente al loro regno questi territori e preferirono tenerli assoggettati sotto forma di “stati satelliti”, tenendoseli legati con trattati di amicizia e alleanza, ricorrendo alla forza solo quando qualcuno di essi alzava la cresta e tentava una politica autonoma.

Sappiamo perfettamente che la regione chiamata dagli Ittiti Kizzuwadna corrisponde grosso modo a quella che in età classica era la Cilicia, nel sud est dell’attuale Turchia, con capitale Adanya (Adana), stato vassallo che si mantenne sempre fedele ad Hatti. Più problematico il posizionamento geografico della regione che nei documenti è denominata Lukka, che però oggi si tende ad identificare con la Licia, sulla costa meridionale turca. Altrettanto sicuro è il posizionamento del potente regno di Arzawa, nello spigolo di sud ovest, che corrisponde alla Lidia di età classica. Con Arzawa gli Ittiti ebbero spesso duri confronti prima di ridurlo in condizione di vassallaggio. Abbastanza certa è anche la localizzazione di Mira che dovrebbe trovarsi in posizione confinante con Arzawa, nell’entroterra. Dove le cose cominciano a ingarbugliarsi è con la regione che gli Ittiti denominavano “Terra del fiume Seha” (nell’Iliade, nelle mura di Troia si aprivano le famose “porte Scee”. Hanno a che vedere con il fiume Seha?). Gli esperti della materia tendono a collocare questa “terra” nella valle del fiume Hermos, oppure del fiume Kaikos se non addiritura del fiume Meandro; comunque nelle vicinanze di Arzawa.

Dove però il cuore dei fans di Omero rischia veramente di andare in fibrillazione è nell’individuazione di Millawanda ed Ahhijawa. Per quanto riguarda la prima, la tentazione di identificarla con Mileto ed il suo territorio è praticamente irresistibile, così com’è irresistibile l’impulso ad assimilare Ahhijawa agli Achei citati in Omero (in ittita la lettera h è fortemente aspirata e finisce per pronunziarsi come una k, per cui la sua pronunzia finirebbe per essere: “Akkijawa”. Per quanto riguarda Millawanda, nonostante qualche dubbio dei linguisti, oggi la tendenza è di considerarla il nome ittita di Mileto, che originariamente era colonia micenea. Per Ahhijawa la controversia è tutt’ora viva, anche se le resistenze opposte da linguisti e scettici con il passare degli anni si sono molto ammorbidite. Inizialmente si pensò che con quel termine gli Ittiti volessero indicare l’insieme della Grecia micenea, ma poi è prevalsa l’opinione che dovesse trattarsi di uno stato miceneo stabilitosi, in un qualche momento a noi sconosciuto, sulla costa egea dell’Asia minore, forse non lontano da Millawanda. Insomma, una specie di “testa di ponte” micenea in terra ittita. Non mancano però (e questo va detto per obiettività) studiosi che posizionano Ahhijawa sulle coste del mar di Marmara, a nord est di Troia, e che sostengono che non abbia nulla a che vedere con gli Achei.

Da quel che si evince dai documenti, I rapporti fra Ahhijawa e gli Ittiti furono spesso burrascosi, in quanto la tendenza dei primi era di “annettersi” Millawanda, o comunque farla uscire dalla subalternità verso Hatti. Ahhijawa viene nominata per la prima volta nelle cronache ittite intorno al 1450 a.C., quando il suo re Attarsiyas (nel cui nome a qualcuno piacerebbe leggere Atreo, antenato di Agamennone) attaccò un vassallo ittita, un certo Madduwattas. Tuttavia, alcune decine di anni dopo, ai tempi del gran re ittita Suppiluliumas, salito al trono intorno al 1380 a.C., i rapporti con Ahhijawa erano diventati piuttosto amichevoli, consolidati da alcuni trattati di amicizia. Nel 1346 a.C., verso la fine del regno di Suppiluliumas, Millawanda fu persuasa da Arzawa a ribellarsi agli Ittiti e a chiedere aiuto ad Ahhijawa, coinvolgendo in questa secessione anche altri regni della zona (Mira e Terra del fiume Seha). Suppiluliumas, ormai vecchio, lasciò il compito di intervenire al figlio Mursilis che debellò rapidamente Millawanda e mise a tacere la “sedizione”.

Tuttavia la tendenza alla ribellione da parte di Millawanda nei confronti degli Ittiti per allearsi con Ahhijawa doveva essere irresistibile dato che intorno al 1307 a.C., verso la fine del regno di Mursilis, il re di Millawanda, un certo Piyamaradus, ruppe il patto che lo legava ad Hatti per porsi sotto la protezione di Ahhijawa. Mursilis dovette mandare un esercito a regolare il conto e, dopo aver occupato Millawanda, chiese ad Ahhijawa di consegnargli Piyamaradus che si era rifugiato presso di essa. Ahhijawa acconsentì alla richiesta ittita e, per quanto la frammentarietà dei testi possa consentire di capire, sembrerebbe che alla fine il ribelle, pentitosi, fu rimesso nuovamente sul trono di Millawanda e costretto a sottoscrivere un nuovo trattato.

Alla morte del re ittita Muwatallis, seguì una guerra civile per la successione al trono tra sostenitori del di lui figlio Urki-Teshub e quelli di suo fratello Mursilis III, quest’ultimo appoggiato anche da Ahhijawa e dal regno di Mira. Alla fine Mursilis III ebbe la meglio e, anche a causa della frammentarietà delle fonti, non abbiamo più notizie dei rapporti fra Ahhijawa e Ittiti sino al regno di Tudhalyas (circa 1260-1250 a.C.), quando ancora Ahhijawa procurò seri problemi agli Ittiti tentando di annettersi la regione del Fiume Seha. In questa fase, dai documenti Ittiti sembrerebbe addiritura che Ahhijawa fosse assurta, o fosse considerata dagli Ittiti, al livello di grande potenza, visto che in una lettera il re Tudhalyas si rivolge al re di Ahhijawa chiamandolo “il mio fratello” e “gran re”, tutti termini che nella rigidissima etichetta diplomatica del II millennio a.C. significavano riconoscere al corrispondente la stessa propria dignità di potenza di primo livello, dignità che a quel tempo competeva solo ad Egitto ed Assiria, oltre che ad Hatti. Il chè, per quel poco che sappiamo noi sugli stati micenei, sarebbe a dir poco veramente strabiliante. Vista la data di queste vicende, ci si potrebbe chiedere se questa operazione bellica di Ahhijawa contro alleati di Hatti, non abbia in qualche modo a che fare con la guerra descritta da Omero contro Troia VI.

Ma per chi spera ardentemente di scoprire nelle cronache ittite notizie di prima mano su Troia ed Achei, c’è in serbo ben altro! Prima però devo fare brevemente ammenda di una mia dimenticanza. Sin qui ho sempre chiamato Troia la città conquistata dagli Achei nell’Iliade, ma come è noto, essa è molto frequentemente nominata anche come Ilio (“Ilios” nell’arcaico greco di Omero ed “Ilion” nel greco classico). Comunemente si ritiene che “Troia” sia un toponimo derivato da un antichissimo substrato pre-indoeuropeo, mentre “Ilios” sia il nome grecizzato della città all’inizio dell’età del ferro (1000 a.C. circa). Nella Troade, la lingua parlata dagli indigeni doveva essere, come nel resto della penisola anatolica occidentale, il luvio, un’idioma indoeuropeo strettamente imparentato con la lingua ittita, per cui è probabile che “Ilios” sia la resa in greco del nome luvio della città.

In alcuni documenti dell’archivio “diplomatico” ittita (per l’esattezza in 6 di essi), è nominato un regno (o una città) di Wilusa, da localizzarsi certamente nell’ovest dell’Asia minore, nel quale molti pensano di identificare Ilio/Troia. E’ peraltro parere degli esperti che, almeno dal punto di vista linguistico, l’ipotesi sia accettabile. Ilios infatti, nell’Iliade, è scritto con lo “spirito aspro” davanti alla iota iniziale, indizio quasi sicuro del fatto che originariamente (diciamo intorno al 700 a.C.) la parola era scritta preceduta dal “digamma”, una lettera dell’alfabeto greco poi scomparsa, che veniva scritta come una specie di F ed era pronunciata “v” oppure “w” (in greco infatti la lettera V è assente anche oggi). Quindi, in definitiva, sarebbe avvenuta la seguente trasformazione: Wilusa – Filios-Ilios. Linguisticamente, come ho detto, la cosa è accettabilissima (molto più dell’assimilazione Ahhijawa / Achei), ma all’identificazione di Wilusa con Ilio/Troia, si oppone l’estrema difficoltà a collocare Wilusa nell’estremo nord ovest della penisola anatolica, visto che quanto emerge dai documenti ittiti è, dal punto di vista geografico, molto incerto ed ambiguo. Sembrerebbe anzi che dalla lettura dei pochi documenti che parlano di Wilusa, questa regione sia da posizionarsi assai più logicamente ad est o a nord est di Arzawa, e quindi verso l’interno dell’Anatolia.

L’unico testo dal quale si può dedurre qualcosa di utile sulla posizione geografica di Wilusa è la cosidetta “Lettera di Manapa-Tarhundas” un re vassallo degli ittiti (forse re di Mira o della Terra del Fiume Seha), diretta ad un sovrano ittita che dovrebbe essere Arnuwanda II, da collocarsi intorno al 1300 a.C. In un passo di questa lettera (molto frammentaria) è affermato che un esercito ittita, per ritornare ad Hatti (ossia al centro della penisola) percorse la Terra del Fiume Seha e “attraversò” Wilusa. Se così è, ci sarebbero assai pochi dubbi a posizionare Wilusa nell’interno dell’Asia Minore e quindi ogni suo apparentamento con Ilio/Troia verrebbe a cadere. Tuttavia il verbo ittita che di solito viene tradotto con “attraversare”, in qualche più raro caso (e qui subentra l’imperfetta conoscenza della lingua ittita) può anche essere tradotto con “attaccare” (militarmente). In questo caso il senso della frase cambierebbe radicalmente: l’esercito ittita avrebbe attraversato la Terra del Fiume Seha per attaccare Wilusa, prima di far ritorno ad Hatti. Ovviamente chi vuole a tutti i costi identificare Troia con Wilusa, preferisce attenersi a questa versione, approfittando della frammentarietà del testo che non permette di comprendere pienamente la situazione ivi descritta.

Ma il testo ittita più importante che concere Wilusa, è sicuramente il cosidetto “Trattato di Alaksandu”, da datarsi attorno al 1280 a.C. In esso il re ittita Muwatallis II si felicita per la salita al trono di Alaksandu, rammentandogli i suoi obblighi verso Hatti (anche in forza a precedenti trattati che non ci sono giunti), lodando la fedeltà di Wilusa, durata oltre 300 anni, ed in particolare quella del suo predecessore Kukunni, leale amico di Suppiluliumas, nonno di Muwatallis. Dal contesto sembrerebbe peraltro che Alaksandu abbia conquistato il potere non secondo una regolare successione bensì grazie all’appoggio anche militare degli Ittiti. Ovviamente chi vuole assolutamente trovare riscontri omerici, almeno a livello di nomi, nei testi ittiti, assimila tranquillamente Alaksandu ad Alessandro (Paride), ed alle obiezioni di chi fa notare che il padre di Alessandro (Paride) è Priamo e non Kukunni, può far giustamente notare che la lettera di Muwatallis parla di “predecessore” e non di padre. Però va detto che è assurdo pensare che “Alexander” sia la resa in greco di un nome ittita (o luvio). Alexander (come abbiamo visto nella “puntata” precedente) è un nome genuinamente greco e proprio in greco ha un ben preciso significato etimologico (“colui che scaccia il nemico”). Casomai potrebbe, al limite, essere vero l’opposto, ossia che “Alaksandu” sia l’ittitizzazione di “Alexander”, ma ciò, alla luce del “Trattato”, verrebbe a significare che gli Ittiti posero sul trono di Ilio (Troia VI) un personaggio greco, loro amico. Altro che Wikiliks, un vero “scoop”! Ma se ammettiamo le correlazioni (entrambe non dimostrabili) Wilusa-Ilios e Alaksandu-Alessandro, dobbiamo necessariamente arrivare a questa conclusione.

I sostenitori della tesi Wilusa = Ilios, adducono a sostegno della propria tesi anche il fatto che nel succitato “Trattato di Alaksandu”, a sancire il patto tra Alaksandu di Wilusa e Muwatallis II sono chiamate le tre divinità principali di Wilusa, tra le quali è elencato un dio Appaliunas, che si vorrebbe identificare in Apollo (nell’Iliade Apollo era la principale divinità troiana e suo era il principale tempio cittadino). Ma purtroppo chi sostiene questa tesi sorvola sul fatto che la parte di testo in cui compare questa divinità è frammentaria e che appaliunas è solo la parte finale della parola che ha l’inizio abraso. In sostanza si tratta di (….)appaliunas, ed è quindi estremamente improbabile che coincida con Apollo, divinità di origine certamente greca.

In uno dei documenti ittiti concernenti Wilusa è stato anche trovato il nome di una città chiamata Taruysa, ad esso correlato, che molti vorrebbero interpretare con Troia. Ma vi si oppone il fatto che dal testo stesso Taruysa e Wilusa appaiono due entità nettamente distinte e non due definizioni diverse di una stessa entità.

Vogliamo tirare qualche conclusione? Da un lato è indubitabile che gli Ittiti fossero in contatto abbastanza stretto sia con Troia, importante per la sua posizione strategica a guardia dei Dardanelli, sia con il mondo miceneo, che dominava i mari e commerciava (e pirateggiava) lungo le coste del Mediterraneo centrale ed orientale. Mancano tuttavia le prove concrete che Ahhijawa sia una qualche realtà micenea sulla costa asiatica, che Wilusa sia Troia e che Alaksandu sia un personaggio in qualche modo correlato all’Alessandro Paride del poema omerico. Sono cose possibili ma tutt’altro che certe.

Io, in quanto ho scritto sopra, cercato certamente di fare la parte dell’avvocato del diavolo, mettendo in risalto tutti gli ostacoli che impediscono a tutt’oggi di dare per scontate certe identificazioni. Per gli scettici si tratta solo di “coincidenze” e di “assonanze fortuite”. Gli “entusiasti” invece ribattono (e forse a ragione) che cinque coincidenze fanno una certezza………