Il primo Giro d’Italia

Riporto un bel saggio di Alfredo Liberi, sul primo Giro, molto interessante anche per comprendere il contesto storico e sociale dell’Italia di quel tempo

Il primo Giro nacque per l’iniziativa di tre persone: Eugenio Costamagna (direttore della Gazzetta dello Sport), Tullio Morgagni (capo redattore del giornale) e soprattutto Armando Cougnet che della Gazzetta era l’amministratore ma anche giornalista sportivo e che, avvalendosi dell’esperienza maturata al seguito dei Tour 1906 e 1907, del Giro fu anche il “patron”, ossia l’organizzatore, sino al 1940.

In effetti quella della Gazzetta fu una vera e propria corsa per precedere il Corriere della Sera che, avvalendosi dell’aiuto e della consulenza tecnica della ditta costruttrice di biciclette Bianchi nonchè del Touring Club , aveva già annunziato, nel 1908, la stessa intenzione. Tuttavia, grazie alla capacità del loro amico Primo Bongrani di procacciarsi i necessari appoggi economici, la Gazzetta dello Sport riuscì a battere sul tempo la concorrenza, assicurandosene anzi l’appoggio: fu infatti lo stesso Corriere ad offrire il premio di 3000 lire in palio per il vincitore della gara e lo stesso Touring Club ad offrire la consulenza stradale.

Per la cronaca, il primo Giro ciclistico d’Italia prese il via da Milano alle 2,53 del mattino del 13 maggio 1909 e si concluse nella stessa Milano il 30 maggio, dopo aver percorso 8 tappe (intervallate ciascuna da una giornata di riposo) per complessivi 2408 km (lunghezza media di ciascuna tappa 300 km). I partecipanti furono 127, di cui solo 49 arrivarono al traguardo. Il vincitore fu il lombardo Luigi Ganna, alla media oraria di 27,26 km/ora, il chè significava esser rimasto in sella mediamente 11 ore per ogni giornata di gara.

Questi i dati statistici, ma il Giro d’Italia non era certamente la prima gara ciclistica di successo che si svolgeva sulle strade italiane, casomai fu la prima vera corsa a tappe. A quell’epoca, sempre contornate da cornici imponenti di folla festante, già da tempo si svolgevano la Milano-Torino (dal 1876), il Giro di Lombardia (dal 1905) e la Milano-Sanremo (dal 1907).

a Milano-Torino (dal 1876), il Giro di Lombardia (dal 1905) e la Milano-Sanremo (dal 1907). Il ciclismo agonistico nel 1909 non era quindi certo una novità per i tantissimi appassionati italiani delle due ruote ed il fatto era dimostrato dal fiorire della stampa sportiva e non, che al ciclismo era dedicata. Esisteva già una notevole mole di giornali e di riviste che descriveva e raccontava (con grande enfasi) lo svolgimento delle varie gare, incrementando nel pubblico, in un’epoca in cui non esisteva né radio né televisione, l’interesse verso questo sport: il Ciclo (fondato nel 1893, poi trasformatosi ne “La Bicicletta”), il Ciclista, L’Illustrazione Ciclistica, La Rivista Velocipedistica (1882) ne sono solo un esempio. E la stessa Gazzetta dello Sport, oltre che trattare a quel tempo prevalentemente di ciclismo, era nata nel 1896, come bisettimanale, dall’unione di due testate specializzate in ciclismo: “Il Ciclista” e “La Tripletta”.

In definitiva è lecito affermare che il Giro nacque per motivazioni prettamente commerciali, allo scopo di innalzare le vendite della Gazzetta che da quando era nata viveva di vita assai grama. Solo nel periodo in cui si svolgeva la Targa Florio c’era un certo incremento delle vendite che altrimenti si attestavano sulle 1500/1800 copie per numero. Il grandissimo successo ottenuto dal Giro sin dalla sua prima edizione contribuì grandemente a risollevare le sorti del giornale, destinato a diventare dapprima settimanale e ben presto quotidiano. Il definitivo “lancio in orbita” avvenne solo con i primissimi anni ’20, in coincidenza del primo boom del calcio, sino a quel momento sport conosciuto e praticato solo da pochi adepti per lo più settentrionali.

Il momento in cui il Giro venne “lanciato” non poteva essere più propizio. Proprio in quegli anni la bicicletta iniziava ad essere veramente il più popolare mezzo di trasporto, anche perché il suo costo (600 lire a fine ‘800), inizialmente compatibile solo con le tasche dei ricchi borghesi che la usavano soprattutto per passatempo pedalando nei parchi e sui lungomare, iniziò sensibilmente a ribassare. Già nel 1905 il prezzo di una bicicletta era diminuito a 120 lire, rendendosi abbordabile anche ad una buona parte della classe operaia, equivalendo a circa un mese di salario (vi era comunque la possibilità di rateizzare l’importo). Senza tener conto che molti praticavano il fai-da-te, acquistando separatamente i materiali necessari (venduti dalle stesse ditte costruttrici) ed assiemandoli magari con l’aiuto di un amico meccanico, il chè ne riduceva di parecchio il costo.

Operai, impiegati, commercianti, fattorini, studenti ma anche contadini: nel 1909 la bicicletta stava conquistando sempre più vaste fette di popolazione, sino a diventare, inizialmente con cautela, ma poi sempre più velocemente, il mezzo di trasporto più diffuso e più economico, usato per lavoro, ma anche per diletto (gite domenicali…) ed infine anche per agonismo. La popolarità di questo sport era dovuta soprattutto al fatto che il pubblico in gran parte composto da “praticanti”, si immedesimava assistendo alle gare e “vedeva se stesso” cimentarsi lungo il percorso. Il vincitore era osannato e portato in trionfo perché tutti sapevano bene, sulla loro stessa pelle, quanto fosse duro pedalare in salita sotto il sole cocente, per chilometri e chilometri. Questo era il segreto del successo del ciclismo agli inizi del secolo, successo che iniziò lentamente a scemare solo quando la bicicletta cominciò a passare di moda, sostituita dal motociclo.

Ed infatti il successo del Giro d’Italia, fin dalla sua prima edizione, superò ogni più rosea previsione, come del resto era avvenuto in Francia 6 anni prima con il Tour. Nelle giornate di gara folle incredibili si accalcavano davanti alle sedi e le redazioni dei giornali in attesa dei comunicati (trasmessi dagli inviati per telegramma o per telefono) sull’andamento della tappa e sull’ordine d’arrivo e nelle città sede di arrivo di tappa la folla creava notevoli problemi ai tutori dell’ordine pubblico, in quell’epoca particolarmente diffidenti verso ogni tipo di assembramento, anche se dovuto ad un evento sportivo.

L’Italia del 1909, anche se “unificata” da 48 anni, era ancora tutt’altro che “unita”: ogni regione si diversificava per lingua, usi e tradizioni locali nonchè condizioni sociali e non è esagerato affermare che, in qualche modo, anche questa corsa ciclistica che annualmente l’attraversava, contribuì almeno in parte a compattarla e renderla un pochino più omogenea, costituendo un comune punto di interesse. In effetti la città più meridionale toccata dal Giro del 1909 fu Napoli, ma questo non per cattiva volontà degli organizzatori, bensì per lo stato disastroso delle strade (anche se chiamarle “strade” era solo un dolce eufemismo) a sud di quella città, giudicate assolutamente impercorribili con delle biciclette. In effetti chi si trovava nella necessità di viaggiare nel meridione sceglieva necessariamente il treno (o anche, in certe occasioni, i collegamenti marittimi), e le strade in genere erano percorse solamente da carri trainati da buoi o cavalli che quando pioveva vi lasciavano impietosi solchi, profondi anche 40 cm, poi asciugati e solidificati dal sole (le famose “rotaie”). Questo in parte avveniva anche al nord, dove le (poche) auto erano usate prevalentemente in città o per raggiungere l’immediata periferia. Però al nord molte amministrazioni locali sottoponevano le strade di propria competenza ad un minimo di periodica manutenzione, completamente assente nel profondo sud, e questo costituì per alcuni anni un ostacolo insormontabile per inserire molte località meridionali nei percorsi del Giro.

Visto che abbiamo accennato allo stato delle strade, tanto vale parlare brevemente anche di altri aspetti “tecnici” dei primissimi Giri, a cominciare dalle biciclette, ben diverse dalle attuali. Mentre una bicicletta moderna, grazie all’impiego di materiali resistenti ma leggerissimi, non pesa più di 6,5 Kg, quelle dell’epoca, in acciaio, pesavano almeno il triplo e soprattutto non erano dotate di cambio. In realtà la possibilità di cambiare il rapporto c’era, ma era molto laborioso. Sui due lati della ruota posteriore erano montati due diversi pignoni: uno più piccolo (e quindi più “duro”) e l’altro più grande, ossia con maggior numero di denti, e quindi più leggero. Per cambiare il rapporto era necessario mollare la catena, smontare la ruota posteriore e rimontarla al contrario, in modo da poter innestare la catena sull’altro pignone. Ma i problemi meccanici per i concorrenti non finivano certamente qui. Ogni corridore partiva con a tracolla un paio di camere d’aria di riserva, in modo da poterne usufruire in caso di foratura (eventualità che, visto lo stato delle strade, era tutt’altro che infrequente). Aveva inoltre in dotazione (fissata al telaio) una pompetta ed il necessario per poter riparare la camera d’aria forata, oltre ad un minimo di attrezzi per poter far fronte ad avarie di vario tipo. Il regolamento infatti parlava chiaro: in corsa era assolutamente vietato farsi aiutare da chicchessia, anche dai meccanici della propria squadra. Ogni intervento di questi ultimi poteva avvenire solo dopo che il corridore aveva tagliato il traguardo, in vista di quella successiva; in corsa ciascuno doveva cavarsela con i propri mezzi personali. Era assolutamente vietato anche aiutare compagni di squadra passando loro del materiale (ad esempio un pneumatico di scorta): il ciclismo a quell’epoca era interpretato come uno sport del tutto individuale, anche se si indossava la stessa casacca, ed ogni “gioco di squadra” era scoraggiato.

Un’altra osservazione si può fare sul percorso di ciascuna tappa. In effetti non era obbligatorio per i corridori seguire il tracciato “consigliato” dalla giuria. Era casomai vincolante transitare obbligatoriamente per i “punti di controllo” stabiliti dall’Organizzazione lungo il percorso, nei quali era appostato un componente della giuria che prendeva accuratamente nota degli orari e dei passaggi. Saltarne uno significava la squadlifica immediata. Per il resto, tra un punto di controllo ed il successivo, il corridore era libero di seguire il percorso che preferiva, ma lo faceva a suo rischio e pericolo, dato che la segnaletica stradale era a quel tempo quasi del tutto assente e spesso doveva sopperire l’organizzazione del Giro a collocare scritte, fercce e cartelli indicatori su tavolette di legno o di cartone. Nelle prime edizioni non erano infrequenti i casi di tappe annullate perché i concorrenti (ed in un famoso caso anche l’auto della giuria) avevano smarrito la strada perdendosi in aperta campagna.

A parte le incertezze sul percorso, va detto che le tappe di quei primi Giri, più che “gare” erano veri e propri “viaggi”, con tutte le incertezze e gli imprevisti che viaggiare in bicicletta comportava a quel tempo. Distanze lunghissime su strade massacranti, con il problema per i corridori di dover provvedere in proprio a reperire vivande e bevande lungo il percorso (anche se l’organizzazione metteva a disposizione un rifornimento a metà gara), e quindi era normale andare alla ricerca di osterie e trattorie di campagna, ma anche il sostare per un riposino su un prato o sotto un albero o addiritura in un casolare di contadini. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il maggior nemico più che il caldo (tipico del Tour de France) era il freddo, la pioggia e, talvolta, la neve, dato che maggio in Italia è ancora un mese piuttosto instabile. Famoso fu il caso del corridore Azzini che, nel Giro del ’14, mentre era primo in classifica (non ancora “maglia rosa”, dato che questa fu istituita solo nel ’31), durante la tappa Bari-L’Aquila di 420 Km (!!), “sparì” letteralmente, senza lasciare traccia. Venne ritrovato solo la mattina dopo, addormentato profondamente in un casolare di campagna, a 30 Km dall’Aquila, dove si era rifugiato la sera prima mezzo assiderato e con un febbrone da cavallo.

I partecipanti si dividevano in due categorie: gli “accasati” e gli “indipendenti”, questi ultimi detti anche “isolati”. I primi erano ciclisti regolarmente ingaggiati dai vari teams dei costruttori di biciclette. Ricevevano un regolare stipendio e potevano godere appieno del supporto tecnico e logistico fornito gratuitamente dalla ditta. Al termine della tappa la loro bici era revisionata e oliata dai meccanici, erano alloggiati in albergo e rifocillati a spese del team. Invece gli indipendenti (che numericamente erano in maggioranza) partecipavano a loro spese, e la loro vita era un vero inferno. Dovevano provvedere in proprio a spedire e ritirare i propri bagagli personali da una città all’altra, non ricevevano assistenza tecnica di alcun tipo e nella città sede di tappa dovevano persino cercarsi un alloggio, spesso presso privati, visto che le poche stanze d’albergo erano quasi sempre requisite dalle squadre degli “accasati”. Anche il rifornimento previsto durante le tappe era per loro a pagamento, mentre era gratuito per i componenti delle squadre ufficiali. Pochissimi di loro riuscivano a terminare la corsa a Milano.

Insomma, per concludere, i primi Giri erano vere e proprie gare di resistenza fisica ed anche meccanica, e non per nulla, al termine della corsa il nome del vincitore era sempre e comunque abbinato alla marca della bicicletta e a quella dei pneumatici, perché se l’atleta ci aveva messo il cuore e la forza fisica, era il mezzo che grazie alla sua affidabilità tecnica gli aveva permesso di ottenere il successo. Così la Gazzetta dello Sport annunziava la vittoria di Costante Girardengo al Giro del ’19:

“Non è vero che Girardengo sia un fortunato: egli è semplicemente un corridore intelligente ed ha scelto il velocipede STUCCHI con pneumatici DUNLOP. Malgrado le strade orribili non ha avuto incidenti ed ha potuto vincere il VII GIRO D’ITALIA” (Gazzetta dello Sport del 11 giugno 1919).

Che differenza con i nostri giorni…. Chi di noi conosce la marca della bicicletta con cui corre Contador, o con cui gareggiava L. Armstrong, e quella dei suoi pneumatici?